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Cap 3 – Nuova versione – La vicina nudista

Nel mio palazzo vivono 40 famiglie. Otto di queste occupano gli appartamenti al piano terra, e le rimanenti sono distribuite in quattro piani. Ammetto di detestare una buona parte dei miei vicini, gli altri ancora non li ho conosciuti.

Da un ipotetico rogo salverei probabilmente la vicina nudista dell’appartamento 1D. Ho bussato alla sua porta circa un mese fa, mi ha aperto in tenuta adamitica. In un primo momento ho pensato ad una candid camera, ho quindi passato alcuni minuti salutando le ipotetiche telecamere nascoste. Lei è rimasta in silenzio a guardarmi, poi spazientita ed infreddolita, mi ha chiuso la porta in faccia.

Ha aperto solo dopo 15 minuti, probabilmente intenerita dall’espressione “GattoconglistivalidiShrek” che stavo assumendo davanti al suo spioncino. Ha voluto spiegarmi prima di tutto il perché della sua scelta. Non appena ha cominciato a parlare, mi sono concentrato sulle sue tette, e non ho realmente ascoltato una parola del suo discorso.

Credo abbia parlato di “uguaglianza”, di “pudore” e altre amenità. La cosa che più mi ha colpito di quella giornata è stata la stretta correlazione esistente tra pronunciare parole contenenti le lettere “T” e “P” e alcuni buffi movimenti nel suo seno destro. In più di un’occasione ho introdotto argomenti fittizi per stimolare l’uso di specifiche parole.

“Hai sentito? C’è un’invasione di topi ittiti nell’edificio”.

“Come topi ittiti? Che schifo! …e non c’è niente da ridere, dobbiamo chiamare qualcuno”. Oppure: “Come si titolava quella famosa canzone di Rita Pavone, parlava di un alimento..”

“Ah sì, forte, Viva la pappa con il pomodoro!”

“Brava! Come faceva, te lo ricordi?”

“Vi-va la pappa pappa, con il po-po-po-mo-doro…”

Dopo un po’ però mi sono stancato, e ho cominciato a guardarla negli occhi, li ha color nocciola. Una cosa alla fine l’ho capita, non vi è nulla di sessuale o malizioso in quello che fa; appena torna dal suo lavoro si spoglia, e così accoglie amici, amanti, fattorini e testimoni di Geova.

La vicina nudista si chiama Flavia, ma io, novello Cartesio, ho applicato il dubbio metodico, e ho cercato di confutare la sua affermazione, “di questi tempi è meglio verificare le cose”, ho riflettuto. Ho cercato di spiegarle che anche dal punto di vista scientifico è dimostrabile che lei non possa chiamarsi così, perché “Flavia” è un nome da magra mentre lei è, usando un eufemismo, un po’ pienotta. Si è anzi quasi commossa quando con l’esempio delle lince le ho spiegato che le “b” e le “o” sono per i nomi dei grassi, mentre le “f” e le “i” per i magri.

“Chiudi gli occhi e pronuncia la parola “lince”.

“Lince”.

“E’ grassa o magra?” le ho domandato “come la visualizzi?”.

“Magra” ha risposto e immediatamente ha aperto gli occhi e mi ha guardato con ammirazione. In psicologia della Gestalt questo si chiama insight: è come un flash che ti arriva all’improvviso e dalla ridefinizione delle cose, scopri come risolvere il tuo problema. Le mie doti persuasive hanno sortito l’effetto desiderato ed ora non si schernisce più se, a volte, la chiamo Bobba.

Flavia/Bobba viene spesso da me, il più delle volte a guardare la tv. Adora la mia tele al plasma ma non ama i film porno di Taylor Rain, dice che la mettono in imbarazzo. L’affermazione, nella sua paradossalità, mi diverte da matti.

Molto spesso mi racconta di come la sua scelta la abbia condannata ad un isolamento quasi perpetuo, dice che i suoi genitori per primi si vergognano di lei, evitano di passare a trovarla, cambiano argomento qualora la discussione con amici cada su di lei.

Di questo ne ha sofferto molto al principio, poi se ne è fatta una ragione e ha continuata orgogliosa per la sua strada. Con me dice di trovarsi a suo agio, capisce che il suo corpo nudo non è fonte d’imbarazzo, ed in effetti non lo è, oramai ne sono assuefatto. Ho smesso di vederla nuda dopo qualche ora di frequentazione, adesso è una delle poche mosche bianche di questo condominio di ignoranti ed egoisti.

Obiettivamente vederla girare nuda non è un gran spettacolo, ricorda un po’ a Marisa Laurito in versione nature, di questo i fattorini delle pizzerie con consegna a domicilio sono consapevoli, e hanno smesso di recapitarle la pizza.

Lei, astuta come una volpe, ha cominciato a farle recapitare a casa mia. In principio la cosa ha funzionato, poi si è sparsa la voce che io fossi affetto da MCI, ed ora i garzoni, temendo di ammalarsi, non consegnano nemmeno più a me.

Così abbiamo cominciato a farle consegnare un po’ a caso in tutto il condominio, approfittando anche per fare un po’ di conoscenze. E’ grazie a questa iniziativa che ho conosciuto il signor Ruberti, il signor Nano, e l’amabile signor Farino che ha deciso di denunciarci per 1) nudità; 2) utilizzo del suo appartamento per recapito di pizze non desiderate; 3) utilizzo del suo appartamento per recapito di pizze non desiderate, in quanto ai quattro formaggi, lui preferisce con il prosciutto; 4) rumori molesti (abbiamo bussato alla sua porta); 5) reiterati rumori molesti (abbiamo anche suonato il campanello); 6) barba incolta (la mia credo); 7) utilizzo di parole dal dubbio gusto quali “tignoso” (“Lei è un vecchio tignoso, ho capito che questo non è il nostro appartamento, ma era l’unica maniera di farci consegnare le pizze) e “algido” (“Signor Farino, che sguardo algido sta utilizzando nei miei confronti); 8) numero eccessivo di denti esposti nel corso di un singolo sorriso; 9) troppe carezze al suo cane; 10) trauma causato dalla nostra apparizione davanti alla sua porta alle 9 di sera.

Con Flavia vi è un patto di assoluta sincerità, non debbono esistere barriere tra di noi, ognuno deve essere libero di esprimere quello che sente, anche a costo di ferire l’altro. Io chiedo consigli a lei e le racconto le mie storie, lei mi offre il suo parere più sincero, io faccio lo stesso. Ho accettato con entusiasmo l’iniziativa, sino a quando mi sono preso il primo pugno in faccia, a suo modo di vedere non spettava a me commentare le sue fattezze da balena.

Cap 2 – Nuova versione – Il Dottor Fabiani

Detesto andare dal Dottor Fabiani, ma sfortunatamente, ne sono costretto. Senza i suoi certificati probabilmente a quest’ora sarei disoccupato, licenziato dal mio stesso padre, stanco dei miei ritardi ingiustificati, e delle mie reiterate assenze.

Fortuna vuole che io conosca questo medico, un uomo che valuto abbia tra i 50 e i 120 anni, non dovrei sbagliarmi di molto. Un pregio del Fabiani è che non mette mai in dubbio le mie storie, e si dimostra propenso a certificare tutto quanto io gli racconti.

La segretaria di mio padre ha fatto incorniciare due documenti in cui la mia assenza veniva giustificata in un caso, da lancinanti dolori mestruali, nell’altro, dal mio sconfortante, quanto inaspettato, decesso. Non so perché faccia tutto questo per me, a volte credo che il luminare mi voglia semplicemente bene, una sorta di simpatia a pelle, come quella che mi lega a personaggi come Sgarbi, Gasparri, Bruno Vespa, D’Alema o Capezzone.

Unico neo in tutto questo è dato dalla questione tempo. Chi si reca dal dottore deve mettere in preventivo di passare nel consultorio tra le quattro e le sei ore, e questo non a causa delle puntigliose e attente visite dell’esperto, quanto alla sua incommensurabile capacità di perdersi in chiacchiere inutili.

Le sue sono riflessioni, atomi di vita inconsistente e triste, flash di future rivalse e progetti che mai andranno a buon fine. Un giorno mi rivela che desidera intraprendere uno studio sulle personalità antisociali presenti nei consigli di amministrazione delle dieci più importanti multinazionali che hanno sede in Italia, il giorno dopo desidera studiare “la paura” per poi escogitare un metodo per sconfiggerla, una volta parliamo di profumi per conquistare le donne, l’altra mi riferisce di come abbia deciso di diventare un monaco Tibetano.

Decine di “vorrei” che non porteranno mai da nessuna parte, ma che hanno il difetto di farmi perdere un sacco di tempo. Alla fine delle sue elucubrazioni, il Fabiani normalmente dedica tre o quattro minuti alle mie richieste, nel corso dei quali gli spiego cosa mi è capitato. “Sono morto”, “ho avuto un figlio”, “ho la febbre gialla”, “ho il gomito del tennista”.

Qualsiasi cosa gli dica, posso stare certo che lui la accetterà, senza obiettare. Se gli incontri sono sfibranti, peggio ancora sono le ore passate in attesa della visita, tra caldo soffocante, e persone malate. Per questo ho escogitato un adorabile modo per far passare il tempo, l’ho chiamato “La sequenza del Fabiani”. Consta di cinque punti:

Primo passo: l’osservazione. Nello studio del Fabiani, in qualsiasi momento una persona arrivi, troverà sempre la sala piena. A volte ho avuto l’impressione che molti degli astanti fossero dei figuranti, pagati dal dottore per mostrare a tutti il suo incredibile seguito. Fatto sta che un qualsiasi nuovo arrivato, una volta resosi conto che dovrà passare molte ore in attesa, non riuscirà a trattenere un’espressione di sconforto, che sarà salutata, inevitabilmente, dalla risata, non troppo sommessa, di uno dei presenti. Ecco, la persona che ha riso sarà la mia vittima.

Secondo passo: il triangolo della polemica. E’ forse il momento più divertente, e quello che mi riempie di soddisfazioni. Comincio coinvolgendo una persona alla mia destra, poi una mia sinistra, fino a catturare l’attenzione di chi ho davanti al fine di creare quello che ho definito il triangolo della polemica. Normalmente è sufficiente un’osservazione del tipo: “Ma da quanto tempo è dentro il signore?” subito doppiata dalla perfida “Ma non aveva detto di avere solo una ricetta?”. Le persone già esasperate per l’attesa, e dalla strana e opprimente aria che si respira, reagiscono come piccole bombe. La polemica monta, e tutti coloro che sono stati coinvolti approfittano del momento per sfogare un po’ di frustrazione. Una volta che si è creato il triangolo, chi ne fa parte reagisce come se vivesse in un branco, e sarà pronto a litigare a favore dei propri simili.

Terzo passo: il sobillatore. Tornano in auge l’ultimo arrivato e il signore che rideva sommessamente. La polemica è proseguita per altri 10 minuti andando a toccare tematiche che esulano un po’ dalle nostre conoscenze quali la fusione a freddo, lo scambio di coppia, e il governo. La confusione creata dal triangolo della polemica ha il pregio di portare il gruppo di pazienti ad un passo dall’esplosione. Quando noto che il gruppo è cotto a puntino, mi rivolgo all’ultimo arrivato ed indicando la vittima gli domando: “Lei è prima del signore vero?”. Già questo normalmente è sufficiente. Davanti all’ingiustizia la vittima esplode, reagisce come una bestia ferita, alza la voce, cerca di far valere le sue ragioni, a volte si giunge all’offesa e alla minaccia.

Quarto punto: la cavalleria. E’ il momento in cui il triangolo della polemica rientra in gioco. Per avvallare le mie osservazioni chiedo conferma ai miei compari che, pur sapendo di mentire, mi danno sempre ragione, è matematico.

Quinto punto: la pazzia. E’ l’apoteosi, il momento in cui il Fabiani esce dal suo studio per vedere cos stia succedendo. L’uomo che rideva ora si trova in una situazione di minoranza, grida al complotto, si strappa i capelli, a volte chiede l’aiuto di Dio o Santi. Se il triangolo non cede, l’uomo cade in uno stato di catatonia, abbassa il tono della voce, bisbiglia frasi senza senso, trema, a volte piange.

Così se ne va almeno un’ora dal Fabiani. Oggi abbiamo dovuto fermare una signora di circa 50 anni mentre con decisione stava strappando i capelli ad una ragazzina di 15. Fabiani è uscito, mi ha visto e mi ha sorriso. “Scommetto che è merito tuo” ha esordito mentre mi faceva cenno di entrare. Mi ha parlato per almeno 30 minuti della sua idea di proporsi ad un circo come domatore di salmoni, per poi coinvolgermi in un appassionante discorso sulla incidenza di gengivite tra i bugiardi, tutte cose che ho ascoltando fantasticando sul mio futuro con la Canalis. Dopo circa 45 minuti ho finalmente potuto parlare io. “Ho bisogno di un certificato, non sono andato al lavoro la scorsa settimana a causa della MCI”.

“MCI?” mi ha domandato lasciando trasparire un filo d’incredulità.

“MCI ovvero mancanza cronica d’iniziativa. La mancanza cronica d’iniziativa è una malattia grave, forse non come la pertosse o gli orecchioni, ma è comunque molto pericolosa”, recito tutto d’un fiato. La mia affermazione lo ha visibilmente preoccupato: “Hai ragione” ha risposto, “riguardati molto”. Quando sono uscito mi sono sentito trafiggere da sguardi carichi d’odio. Sono rimasto dentro per circa un’ora e avevo detto a tutti di avere solo una ricetta.

Cap 1 – Nuova versione – La MCI

MCI = mancanza cronica d’iniziativa

La mancanza cronica d’iniziativa è una malattia grave, forse non come la pertosse o gli orecchioni, ma è comunque molto pericolosa. Auto diagnosticarmela è stato semplice, è bastato riflettere per un attimo sulla mia situazione.

Venerdì invece di andare a lavorare da mio padre, sono rimasto a letto. Mi hanno telefonato dall’ufficio almeno 5 volte; nell’ordine ho finto di essere: un immigrato clandestino di nome Karim che si guadagna la vita spacciando piccole dosi di fumo, una povera nonna abbandonata anche dai nipoti, Sbirulino, il Conte Dracula, una calda diciottenne alla disperata ricerca di un uomo brizzolato.

In tutti i casi, la segretaria di mio padre mi ha definito “inconcludente e fannullone”. L’accusa, reiterata così a lungo, ha smosso qualcosa, tanto che mi sono ritrovato a riflettere sulla mia situazione. Rimanendo a crogiolarmi sotto le coperte mi sono posto 5 domande che, se fossi un bimbominkia, avrei potuto tranquillamente inviare al Cioè, ovvero “chi sono”, “dove mi trovo”, “dove andrò”, “cosa ho fatto”, “a cosa ambisco”.

In realtà le domande erano sei, ma a “Che ore sono” ho risposto semplicemente guardando lo schermo del mio iPhone. Mi sono addormentato riflettendo sulla numero tre. Dopo un’ora di meritato riposo ho aperto gli occhi, e ho realizzato quanto segue: ho 36 anni e, ad oggi, non ho combinato nulla di buono. La mia vita è simile ad una zattera dispersa in alto mare. Le onde la sospingono a destra e poi a sinistra, senza una meta, in balia degli eventi.

Conosco il mio nome e il mio indirizzo di casa (domande uno e due) ma, per il resto, c’è buio pesto. L’unica spiegazione plausibile che io riesca a darmi è che io sia affetto da una nuova, quanto devastante e pericolosa malattia. L’ho battezzata MCI = mancanza cronica d’iniziativa. Suona bene, come TBC, HIV, o TAC. Tre lettere si ricordano facilmente. Ora…non mi si venga a dire che si tratta di una scusa, non è forse vero che chi manifesta sintomi quali tosse, raffreddore e febbre è universalmente riconosciuto come “una persona con l’influenza”? Bene, io che a 36 anni dimostro poca voglia di andare a lavorare, sono indolente e pigro, non ho una meta, non ho ancora vinto un Nobel, scalato l’Everest, partecipato alla notte degli Oscar, o ad una serata Bunga Bunga, sono chiaramente ed inconfutabilmente malato di MCI.

Il mio ragionamento mi convince e al tempo stesso mi preoccupa, decido pertanto che dovrò avvisare i miei genitori, magari domenica, durante il nostro consolidato e noiosissimo happening familiare.

Passo il sabato seduto sul divano, ho staccato il calendario della Canalis dalla parete e l’ho appiccicato alla televisione. Non smettiamo di fissarci per ore, c’è qualcosa di magico tra di noi. Faccio piccole pause di circa 15 minuti per far riposare la vista. Chiudo gli occhi e approfitto per immaginare le reazioni dei miei quando parlerò loro della MCI. Non è facile per un padre o una madre scoprire certe cose, sono certo si dimostreranno comprensivi, e intenderanno la mia sofferenza.

In passato ho confessato loro di essere gay, di essere di colore, di essere un gay di colore, di essere il primo uomo atterrato sulla Luna e il secondo sul Sole (dopo Berlusconi).

Hanno accettato il tutto senza eccedere in colorite manifestazioni di gioia e/o stupore, sia nel momento della confessione, che successivamente, quando ho rivelato loro che si trattava di un mucchio di fandonie.

Questa volta sarà diverso. Mia madre probabilmente ascolterà in silenzio le mie parole, mentre mio padre, fingendo che un moscerino gli sia finito dentro l’occhio, verserà qualche lacrima. Alla fine mi abbracceranno, sapranno consolarmi con frasi che solo i genitori sanno proferire; poi mi regaleranno dei soldi.

Ho già vissuto la scena almeno 1000 volte nella mia mente, e ho provato e riprovato il tutto davanti allo specchio, calibrando pause e sospiri per rendere il momento ancor più drammatico.

Adesso è domenica, sono le 13.30. Mio papà siede alla mia sinistra, mia sorella si è accomodata di fronte a me. Ho come l’impressione che mi eviti sistematicamente. La televisione è sintonizzata sul TG1, mio padre è già sprofondato in un religioso silenzio che romperà solamente quando l’ultima delle notizie sarà data. Nel corso dei 30 minuti di TG, l’uomo che ritiene di aver in un qualche modo contribuito alla mia nascita, sarà in grado di rispondere solamente a monosillabi. E’ come se il 95% della sua RAM fosse dedicata alla comprensione dei programmi TV.

Non ho mai capito se si tratti di una sorta d’isolamento e fuga dalla famiglia, o semplicemente sia affascinato dallo spettacolo messo in onda. Per non traumatizzarli subito con la terribile confessione, decido di preparare il terreno allietando il nostro pranzo domenicale con aneddoti e racconti di assoluto interesse.

“Padre, evidentemente hai avuto la sfortuna di incappare in una zanzafante, non si spiegherebbe altrimenti il tuo dolore alla spalla”. Mia madre si sofferma per un secondo a guardarmi, accenna un sorriso, poi ricomincia a servire il pranzo. Fatico ad interpretare i suoi sguardi, a volte ho come l’impressione che mi reputi un mezzo svitato.

Sono arrivato a casa dei miei genitori da circa un’ora, mio padre non mi ha ancora rivolto la parola. E’ probabilmente furioso per il fatto che mi sia presentato al lavoro sono due volte questa settimana. Sarò sincero…me ne frego. Gli parlo come se realmente ricevessi da lui un feedback, cambio repentinamente di tematica cercando di stimolare il suo interesse, mi prodigo per rendere le conversazioni sempre attuali e piacevoli. Lo ammetto, sono un figlio modello, forse non tanto modello come Marcus Schenkenberg, ma molte mamme adorerebbero avermi accanto.

La donna che si vanta di essere mia mamma fa la spola tra la pentola e la tavola, trasportando piatti di fumante spezzatino. Cucina molto bene, ad eccezione delle patate al forno, quelle inspiegabilmente risultano sempre, per consistenza, simili alle pietre focaie. Negli anni ha provato di tutto: a farle lessare prima di infornarle, a tenerle in forno per il doppio del tempo consigliato, fin a comprarle già cucinate, non c’è stato nulla da fare. Per un misterioso evento, difficilmente spiegabile se non attraverso la frase “viaggi ai confini della realtà”, le patate rimangono crude, immangiabili, disgustose.

Oggi veste in modo alquanto singolare: pantaloni della tuta verde fosforescente (per evitare di macchiarsi, dice) abbinati con un’elegante maglia color viola che Quella le ha regalato per il compleanno.

Quella è “mia sorella probabilmente adottata”. Il fatto che io non abbia ancora scovato i documenti che comprovino l’effettiva adozione è solo un dettaglio. Le prove ci sono, i miei le hanno solamente nascoste bene, è una questione di tempo, prima o poi le scoverò. Possibilità di celare qualcosa in casa ve ne sono a bizzeffe, io negli anni mi sono specializzato nell’occultamento di giornaletti sconci.

A 13 anni comprai il mio primo Bliz, mi costò 1000 lire e 10 minuti di terrore. Passai in rassegna tutti gli articoli da regalo esposti dall’edicolante prima di veder uscire dalla porta anche l’ultima cliente. Una volta solo, armato di soldi e coraggio, mi avvicinai all’uomo con in mano l’oggetto della mia lussuria. “Questo” dissi, poggiando il giornaletto sul banco. Non stavo comprando Famiglia Cristiana, e il seno di Carmen Russo in bella mostra, ne era la più fervida delle testimonianze. “Questo?” domandò l’uomo. “Perché” risposi io in stato confusionale “è solo vietato ai minori di 14 anni”. “Intendevo…solo questo, o desideri altro?” rispose l’uomo sorridendo. “Solo questo” replicai balbettando, e dopo aver pagato, mi incamminai velocemente verso l’uscita.

Una volta a casa, dopo aver scientificamente evitato di percorrere la strada principale, ed essermi fermato almeno una decina di volte a controllare che le ragazze (nude) non soffrissero il freddo, e non stessero soffocando (strette tra la pelle e i jeans, e coperte dalla mia maglietta), decisi di nascondere il mio tesoro dietro all’armadio della mia stanza.

Mia madre fece pulire a fondo la camera la settimana seguente: oltre alla polvere, trovò il mio Bliz, che ovviamente fu bruciato. La seconda volta (sempre con un Bliz) decisi astutamente di nascondere la rivista dentro il vecchio aspirapolvere dei miei. Lo tenevano in garage, sporco, abbandonato, sostituito da un modello più nuovo e potente.

Tornò utile agli operai di mio padre, i quali, non riuscendo a farlo funzionare, decisero di aprirlo. Oltre alla polvere, trovarono il mio Bliz, che ovviamente fu bruciato. Smisi di comprare giornaletti, ma in compenso divenni un esperto di tutti i più nascosti anfratti della casa. In uno di questi si cela la verità su Quella.

“Quella racconta a tua madre della zanzafante della tua favela”. Mia sorella ha un piccolo sussulto, mi fissa con terrore e comincia a piangere. Il signor Pavlov sarebbe orgoglioso di me, oramai riesco a farla piangere solo rivolgendole la parola. Mio padre, o presunto tale, non smette di massaggiarsi la spalla, borbotta qualcosa riguardo lo stress.

“Padre la zanzafante è un insetto subdolo, ne hanno parlato Piero Angela e il figlio Sconosciuto Angela non più tardi di una settimana fa, in una puntata speciale di Super Quark. Ricordo perfettamente il tono allarmistico che utilizzavano. Hanno spiegato come l’insetto sia il risultato di un’appassionata, quanto singolare, notte di sesso intercorsa tra un elefante maschio, e una zanzara femmina”. “Sorvoliamo il fatto che la suddetta signora zanzara sia entrata di diritto nella Hall of Fame degli insetti/animali più fortunati e sorridenti del mondo, alla stregua del geco che vive nel bagno di Angelina Jolie, e del pitone di Cicciolina, e focalizziamoci sulla gravità della situazione. Angela 1 e 2 sostenevano che il prodotto di tale incontro fosse appunto la zanzafante, un insetto grande come una zanzara ma del peso dell’elefante, fornito di ali per volare, proboscide e orecchie di spropositate dimensioni”.

Il mio appassionante racconto non sembra interessare molto mio padre. Mangia fissando la televisione come se ne fosse completamente ipnotizzato. “Cercavano di far comprendere agli ascoltatori la gravità della situazione: se una zanzafante si poggia su di te…è come se lo facesse un elefante! Ti rendi conto che ti sei salvato per un pelo? Probabilmente ti ha semplicemente toccato sulla spalla, per questo ora la senti indolenzita”.

“Mangia che si raffredda”, mi interrompe mia madre. Lascio passare alcuni minuti prima di affrontare l’argomento, sento che vi sono tutti i presupposti per essere capito e compatito.

“Miei cari ho una notizia che probabilmente vi farà soffrire, e preoccupare, ho deciso di parlarne oggi, davanti a tutti, per dare anche a Quella la possibilità di capire come una vera famiglia italiana, anzi direi quasi padana, si stringa attorno ad un figlio – non adottato – nel momento del bisogno”.

Non lascio a mia madre il tempo di obiettare qualcosa. “La notizia è tragica, ma vorrò raccontarvela nel modo meno drammatico possibile, ovvero useremo un gioco. Le regole sono queste: io vi dirò una serie di malattie, tutte accomunate dal fatto di venire abbreviate con sigle di 3 lettere. Poi voi dovrete quale di queste io abbia”. Succede l’inspiegabile, mio padre spegne la televisione, giusto nel momento in cui si raccontava dell’assoluzione del signor Mills, respira profondamente, con gesti che sembrano riprese in slow motion si pulisce gli occhiali; poi rimane a fissarmi. In cucina regna il più assoluto silenzio.

“Allora ditemi, e ricordo che ciascuno di voi ha solo una possibilità, quale di queste malattie ho beccato:

* HIV

* TBC

* MCI

* NBA

* TAC

* PUF

Mia madre porta d’istinto la mano alla bocca e scoppia a piangere. Direi prevedibile.

“Perché non hai usato i profilattici con quelle donnacce” grida, il viso si è fatto paonazzo e le lacrime scorrono lungo il viso, “mi sento morire”. Dopo alcuni secondi riprende la calma, mi fissa negli occhi ed esclama solennemente: “Tuo padre ed io faremo di tutto affinché nulla cambi tra di noi. Dovremmo prestare attenzione ad alcune cose per via del contagio, ma ti assicuro che non ti mancherà mai il nostro appoggio figliolo”.

“Commovente” rispondo, “ma sfortunatamente per lei, Signora Longari, non era HIV”. Mia madre rimane alcuni secondi impietrita, poi i suoi lineamenti si distendono e ricomincia a piangere, questa volta di felicità…credo.

“Cosa sarebbe la “PUF”? domanda Quella. “Ho immaginato potesse essere la malattia di quelli affetti da meteorismo” rispondo. “Allora hai quella” risponde lei ridacchiando. “Stupida, vai a sniffare il tuo sacchetto di colla, corri. Comunque non è la PUF”. Mio padre, che non ha smesso di fissarmi aspetta che sia tornato il silenzio prima di proferire parola.

“Conoscendoti, sarà una follia. Non può essere TBC, la TAC non è una malattia, la NBA immagino sia la lega di basket americano. Sono costretto a dirti MCI, ma soprattutto a domandarti di cosa si tratti perché, ad oggi, non ho mai sentito parlare di alcuna malattia così nominata”.

Come provato più volte allo specchio assumo la mia espressione Brandon di Beverly Hills. Inarco il sopracciglio sinistro e contemporaneamente socchiudo entrambi gli occhi. Ora il mio volto trasmette sicurezza, fascino e profondità, ne ho bisogno in questo momento. Imposto anche la voce, sembro uno speaker radiofonico.

“Vi sarete domandati come mai il sottoscritto non abbia ancora vinto un Nobel, il Pallone d’Oro, un Oscar o un Pulizer. In alcuni momenti magari, vi sarò anche sembrato un po’…diciamo scansafatiche. Sappiate che non era colpa mia, sfortunatamente sono affetto da MCI, ovvero mancanza cronica d’iniziativa, una malattia grave, forse non tanto quanto la pertosse o gli orecchioni, ma comunque molto pericolosa”.

Il primo, ed unico, a parlare è mio padre. Non posso dire di aver correttamente immaginato la sua reazione. “Finisci lo spezzatino che tua madre ha cucinato, esci da questa casa, inforca la tua Graziella blu, e torna nel tuo appartamento. Fatti una doccia, riposati perché domani tu e la tua MCI vi fate trovare in ufficio alle nove altrimenti…ti prendo a calci nel sedere”.

Accende nuovamente la televisione, siamo arrivati ai servizi sportivi. La delusione è davvero enorme, mi sarei aspettato tutt’altra reazione, non si tratta così un figlio malato. C’è imbarazzo in cucina, finisco di mangiare e me ne esco senza salutare.

Alla ricerca di un titolo

Cap 44 – Epilogo

Mi chiamo Sebastiano, ho 36 anni e…vedo demoni.

Non sono mostri con corna e forcone, sia chiaro, i miei demoni sono differenti; persone apparentemente normali: parlano, scherzano e vivono accanto a noi.

Ho scoperto da poco di non essere l’unico, siamo in molti a possedere questa facoltà.

Sia stato per natura, per un colpo di fortuna, o tutto sia dipeso da un disegno divino, questo non lo so, fatto sta che i miei occhi vanno al di là delle apparenze: percepiscono il bene e il male nascosto in chi mi circonda.

Mi guardo intorno, cammino per le strade, entro in una banca, o in una discoteca, capita sempre più spesso: i volti di uomini meschini assumono le fattezze di animali, a volte sono cavalli, altre volte rospi, più raramente coccodrilli.

In altri casi è un particolare che mi avverte: un monile esagerato che d’improvviso si duplica all’infinito ed adorna i volti di decine di donne, o un poncho color rosa che veste e ripara ragazze che sembrano tante fotocopie. Sono i segnali di un qualcosa che non funziona, le campanelle che mi avvertono che sono davanti ad un altro demone.

Mi volto, e un momento dopo sto parlando con una persona umile e dignitosa, e percepisco una luce che mi riscalda. Riconosco il suo genio, la rosa che avrebbe potuto nascere, e che le vicissitudini della vita hanno ucciso. Non vi è status sociale, lavoro, macchina o telefono, vi è solo un’anima candida, che merita il mio rispetto, e mi concede la forza per continuare a sorridere.

Ho creduto di poter aiutare le persone che ho incontrato, ma ho capito che non spetta a me giudicare e salvare; ciascuno di noi è dotato di libero arbitrio, e davanti alle opzioni, si ha sempre la facoltà di scegliere per poi magari di ritornare sui propri passi. Io posso arrivare a mostrare l’alternativa, spetta agli altri decidere se continuare a sbagliare.

Ho scoperto tutto questo grazie ad un dottore folle, di cognome fa Fabiani, il suo nome non lo ho mai voluto sapere.

Ha finto di curare una malattia chiamata MCI, una delle mie mille invenzioni, create ad hoc per proseguire nella mia opera di auto sabotaggio. Grazie a lui ho scoperto il mio dono, ma non solo.

Ho fatto luce dentro di me, ho preso coscienza di quelli che sono i miei pregi, e ho imparato a conoscere meglio la mia famiglia e i miei amici.

Ho un padre meraviglioso, si chiama Ioli, si è spaccato la schiena per offrirci un futuro sereno. Adora mia madre, ed è l’esempio di come la dedizione e la perseveranza paghino. Se potessi dargli un solo consiglio, gli direi di godersi la vita, di viaggiare, di trovarsi un gruppo di amici con i quali giocare a carte, a bocce o a tennis.

Ho una madre splendida che si chiama Bianca. Fabiani mi ha fatto capire molte cose su di lei. Se a 36 anni non ho ancora imparato a godere della vita è un po’ per causa sua, ne sono consapevole, ma non le porto rancore.

Sono un uomo onesto, retto, e ligio al dovere, ed è soprattutto grazie ai suoi insegnamenti, ai suoi rimproveri e le sue imposizioni che lo sono diventato, non smetterò mai di ringraziarla per questo.

Ho una sorella, si chiama Nicoletta, ho sempre creduto fosse adottata, ma comincio a credere non lo sia; le voglio bene, e anche se continuerò a cercare i documenti di adozione, e persevererò con i miei esperimenti pavloviani, prometto che farò di tutto affinché sia felice.

Non ho molti amici. C’è Stefan, il mio fido scudiero: spero che la sua storia con Lia vada a buon fine, avere una ragazza veterinaria sarà utile qualora lui vorrà comprare un altro topo; poi ci sono il nano, Paolo, Mauro, e poche altre magnifiche persone che hanno imparato a conoscermi, e mi hanno aiutato a capire tante cose che prima non conoscevo.

Nella mia vita ho sprecato tempo, ed occasioni. Ho perduto treni per paura di montarci, mi sono giocato chance che capitano forse una volta sola nella vita. Ho avuto paura di rischiare, e così mi sono condannato alla sicura sconfitta.

Cosa succederà ora? Ancora non lo so, di sicuro spetta a me prendere in mano le redini della mia esistenza. Mi aspettano momenti felici e altri che lo saranno meno, ho deciso di smettere di preoccuparmi troppo delle conseguenze.

Magari un giorno in un centro commerciale incrocerò nuovamente Asia, e la vedrò sorridente, insieme a suo marito e a due splendide bimbe vestite di rosa.

Penserò al giorno in cui per paura di lottare e di soffrire, la ho spinta lontano da me. Ora sono certo che questo non accadrà più, non caccerò mai più lontano da me la possibilità di essere felice.

Poi forse un giorno incontrerò una donna, succederà ne sono certo nel luogo più impensato e inatteso, mi innamorerò di lei e per lei deciderò di attraversare il mondo intero.

Forse un giorno, guardando fuori dalla finestra, aprirò una pagina bianca di word e deciderò di raccontare a tutti la storia di uno strano ragazzo…che vedeva i demoni.

FINE

Cap 43 – Ultimo incontro

Io e Scrid siamo seduti uno davanti all’altro, aspettiamo da qualche minuto che Fabiani apra la porta e ci faccia entrare.

Non ci siamo nemmeno salutati, ma confesso che ho quasi sorriso non appena la ho vista.

L’unica cosa che mi impedisce di manifestare un minimo di gentilezza nei suoi riguardi, è che sono un vero uomo, e come tale dovrei in teoria non salutare, fumare, bestemmiare, picchiare i bambini, evitare di ballare, di piangere e di lasciar trasparire le emozioni.

A tratti fingo stanchezza e porto le mani davanti al viso, dai piccoli spazi tra le dita la spio, cerco di capire se anche lei stia fingendo indifferenza, o realmente sia talmente furiosa dopo quanto le ho detto, da decidere di estromettermi dalla sua vita.

Non che ci fossi mai entrato, a dire il vero, ma la comunanza di medico, e quella buffa serie di incongruenze e piccole follie che aveva manifestato, le avevano fatto guadagnare un posto nel mio personale Olimpo dei migliori amici, poco sotto il coniglio Osvaldo del mio amico Pietro, ma direi alla pari con il figlio sordomuto del giornalaio dove da piccoli compravamo di nascosto il Blitz.

Scrid non alza mai lo sguardo dalla rivista che ha raccolto dal tavolino davanti a sé, i suoi occhi esplorano con attenzione le pagine che monotonamente gira.

Il fatto di venire ignorato in maniera così palese mi mette a disagio e mi innervosisce, e ben presto mi ritrovo a fingere di grattarmi la testa utilizzando solamente il dito medio ben indirizzato verso di lei, o tirare fuori la lingua tutte le volte che la mia mano, o il telefono, possono fungere da barriera al suo sguardo.

Comportamenti pacificatori, li chiamerebbe qualcuno, ossi gesti per abbassare la tensione.

A rifletterci bene, di tensione ne ho accumulata fin troppa in questi ultimi tempi; da quando ho cominciato la cura dal dottore ne sono successe di cotte e di crude, ho scoperto molti miei pregi, e alcuni giganteschi difetti, ho fatto luce all’interno di una stanza buia, e come per incanto, ho cominciato a vedere dei demoni.

Quando ero sul punto di chiudere questa maledetta avventura, ecco comparire Scrid, spocchiosa ed insolente, a raccontarmi che la MCI non esiste, che tutto sta dentro di me e 1000 altre frottole.

Oggi sono qui più per orgoglio che per altro, voglio che sia il Fabiani a umiliare Scrid, a dirle che la MCI esiste, e che con un ultimo ed imponente rituale sarà definitivamente sconfitta, oggi, qui, per sempre.

La mia mente prende nuovamente il volo, gli occhi aperti già hanno smesso di osservare; ciò che ho davanti è una scena così vivida, che ne posso percepire i rumori e gli odori.

Ci siamo io e il dottore, concentrati a recitare formule esoteriche in lingue oramai morte, mentre i vetri vibrano a causa dell’energia che si sprigiona dal mio corpo.

E’ la MCI che lotta fino alla fine per non abbandonarmi, che vuole rimanere dentro di me, perché ha trovato un uomo ideale da sabotare.

E quando finalmente il Fabiani grida al cielo le ultime parole, il coltello sacrificale saetta verso la carne della giovane vittima….Scrid?

Non riesco a trattenere un grido di terrore, porto le mani alla bocca.

Fatti, supposizioni, fantasie, correlazioni illusorie, in un attimo tutto si unisce, e la visione che mi appare davanti agli occhi mi lascia sgomento.

Sarà possibile? Fabiani ha deciso di sacrificare una ragazza per liberarmi dalla mia malattia? Sarà per questo che me la ha fatta conoscere? Voleva conoscessi prima la vittima?

Non riesco a distogliere lo sguardo da Scrid, non so più che fare, se dirle di scappare, e condannarmi così ad una MCI eterna, o lasciare che il rituale si compia.

“Vedo che ci siete entrambi” dice il dottore che nel mentre ha aperto la porta, “volete accomodarvi?”.

Per la sorpresa quasi cado dalla sedia. Il dottore si è fermato accanto a me e mi poggia una mano sulla spalla sinistra, evito di morderlo per puro caso.

Scrid si muove per prima e mi passa davanti continuando ad ignorarmi. Una volta passata oltre la mia sedia, scopro che fingendo prurito ad un fianco, mi sta mostrando il medio.

L’affronto è sufficiente a farmi andare su tutte le furie, quel minimo di pietà stranamente apparsa in me scompare, e la ragazza viene prontamente annoverata tra le possibili “casuality”.

Lascerò che venga sacrificata, rifletto, al massimo porterò le sue ceneri avvolte in una bandiera alla famiglia.

Rinfrancato da tale pensiero, entro nello studio.

Scrid ha occupato la poltrona ove normalmente sono solito sedere, e sta armeggiando alla ricerca di un qualcosa nella sua borsa da hippy.

Scopro d’improvviso di detestare la sua stupida spilla Accidenti come amo la mozzarella di bufala.

Approfitto della sua momentanea distrazione per urtare con l’anca lo schienale della poltrona.

Scrid è protesa in avanti e l’improvvisa spinta la scaraventa al suolo. Riesce a malapena a ripararsi il viso con una mano prima di cozzare contro lo spigolo della scrivania.

“Scusa, non lo ho fatto apposta” le dico.

In silenzio lei si mette nuovamente in piedi, alza e sistema la poltrona, e senza rispondermi si mette comoda.

Ora siamo seduti uno accanto all’altro, entrambi in silenzio. La sua sacca di canapa è posata accanto al piede sinistro.

“Meglio sistemi la mia borsa dall’altro lato” dice, e nel mentre, afferra la borsa con la mano destra, e con forza la solleva da terra. E’ una questione di inerzia, non appena giunta all’altezza del suo viso, è sufficiente un piccolo impulso verso destra, e la borsa si trasforma in un proiettile che si scaglia con forza sul mio viso.

L’impatto è tale che per un attimo vedo tutto nero. Il colpo al naso è quello che più mi provoca dolore e in un attimo le lacrime che scendono dagli occhi cominciano a mischiarsi con il sangue che cola copiosamente dalle mie narici.

“Scusa, non lo ho fatto apposta” mi dice dopo avermi osservato per un po’.

Il Fabiani che ha assistito a tutta la scena ci osserva senza dire una parola.

Mi tampono il naso con un fazzoletto che il dottore mi porge, ma non degno di uno sguardo la ragazza, la mia vendetta sarà vedere il suo corpo sacrificato sull’altare della MCI.

“Vedo che avete fatto amicizia” esclama alla fine il dottore, chi di vuoi due ha voglia di raccontarmi come è andato il vostro incontro?

“La scema dice che la MCI non esiste” esclamo io dopo qualche secondo di silenzio. Mi volto verso di lei e la fisso con cattiveria.

“Lo scemo dice che la ECI è una mia invenzione” risponde Scrid e volgendosi verso di me, raccoglie la sfida e mi guarda negli occhi.

“Sei una poveretta” le dico.

“E tu uno scarafaggio” mi risponde.

“Specchio riflesso” le sgancio.

“Vai in cesso, ti ho fregato” ribatte e mi mostra il dito medio.

“Dottore, dica alla pazza qui che la MCI esiste, che la ECI è una boiata, e sbrighiamoci con il sacrificio, più tardi voglio festeggiare”.

“Io dico che la MCI te la sei inventata, che sei un buffone e che il dottore ti caccerà a pedate oggi” ribatte Scrid.

“Io dico che sembrate due bambini, e noi normalmente i bambini li calmiamo con le caramelle. Volete una Mentos? O forse, a furia di mangiarne nel corso dei rituali, già non le sopportate più?”.

Smettiamo di fissarci con astio e lentamente torniamo a sederci in direzione del dottore. Sul tavolo ci sono delle caramelle bianche, del tutto simili a quelle usate nei rituali…del tutto simili anche alle Mentos.

“Chi di vuoi due vuole azzardare una spiegazione? Domanda il dottore.

“Erano Mentos benedette?” provo io.

“Acqua”.

“Magari modificate a causa di una fuga radioattiva di cui nessuno ci ha informati? Io ho partecipato ad una manifestazione a favore, e una in contra” interviene Scrid.

“Che idiozia” ribatto “sarà una nuova linea delle Mentos, alla menta, alla frutta, e..comportamentali”.

“Acqua ancora” dice il Fabiani che continua “vi dico cosa facciamo adesso: ciascuno di voi mi racconta come è andato l’incontro del venerdì, cosa vi siete detti, a quali conclusioni siete arrivati. L’altra persona rimane in assoluto silenzio. Alla fine parlerò io, e vi dirò che ha ragione e chi ha torto”.

“Scrid, per favore, inizia tu”.

La giovane riordina per un momento i propri pensieri e comincia a narrare la sua versione dei fatti. Racconta di come sia riuscita ad intrufolarsi prima nel pc del dottore e poi nel mio.

Dice di aver letto con attenzione i miei file, e di essersi fatta un’idea ben precisa della mia situazione.

“A mio avviso, la MCI è una enorme stronzata. Nessun libro ne parla, e per quanto ho capito, questo scemo un giorno è venuto da lei dopo che si era auto diagnosticato il problema. Che avesse dei problemi, questo era evidente. I suoi appunti mi hanno restituito un’immagine di un uomo intento a sabotare le sue iniziative, a trascurare i propri pregi, e a perdere tempo in inutili battaglie”.

“Nel tempo però le cose sono cambiate” continua, “mi riferisco alla sua visione nei confronti di se stesso: non più un supereroe, ma una persona più saldamente ancorata alla realtà. Guarda caso, appena scoperto questo, lo scemo comincia a vedere delle cose. In un primo momento ho pensato fosse un pazzo, affetto da schizofrenia o una diavoleria del genere, ma poi mi è venuta in mente una battaglia che io ho affrontato in passato”.

Si volta verso di me, il suo tono ora è calmo e pacato, ricomincia ad essermi simpatica.

“Combattevo a favore di persone con problemi alla vista, e parlando con molti di loro ho avuto una conferma ad una cosa già nota, ossia che certi sensi, in mancanza di altri, si amplificano. La mia impressione è che tu sia speciale, che tu non abbia più necessità di nasconderti dietro ad una MCI, ma che debba affrontare la tua vita, prendere la tua strada, affrontare le conseguenze delle tue azioni, alla luce dei pregi e dei difetti concreti che ti ritrovi”.

Scrid mi sorride e torna a volgersi verso il dottore.

Il Fabiani annuisce e volge lo sguardo verso di me.

“E lei, che mi dice di Scrid?”.

“Le mie idee sulla ECI o come cavolo si chiama gliele ho già espresse personalmente. Conosco Scrid da poche ore ma mi sembra evidente che se in questa stanza c’è qualcuno che si sabota, quella persona è lei. Mi ha raccontato del fidanzato, di come non sia riuscita a rielaborare la sua perdita e di come, finita l’università si sia imbarcata in una serie di iniziative, per molti tratti illogiche. Come si può manifestare un giorno a favore e l’altro in contra della stessa cosa? Dal mio punto di vista è solo un modo banale di non affrontare la propria vita, perché si ha paura di prendere una decisione, di vivere sulla propria pelle momenti che potrebbero essere anche difficili. Le ho detto che la perdita del ragazzo è stata dolorosa perché Scrid non è mai vissuta indipendentemente dalla simbiosi che si era creata, così quando lui la ha lasciata, cosa triste ma umana, una parte di lei è morta”.

Questa volta sono io a dirigere lo sguardo verso Scrid.

“La ECI non può esistere, tutto sta nell’ammetterlo a se stessi, fare un respiro profondo, e guardare avanti. E’ ovvio che tutte quelle lotte non fossero altro che un modo di posticipare il tuo ingresso nel mondo degli adulti, ma adesso è arrivato anche per te, affronta le tue paure, scoprirai che non è così drammatico come sembra. Recupera la tua famiglia, i tuoi amici, perché su di loro potrai sempre contare. Butta quelle ciabatte orride, scegli un look coerente con chi sei..e poi…vola”.

Quando volgo lo sguardo, il Fabiani sta sorridendo.

“Direi che entrambi siate ansiosi di sapere cosa ne penso” esordisce.

Prende un po’ di tempo, deve aver studiato qualche tecnica di Public Speaking.

“La MCI e la ECI…ragazzi miei, non esistono”.

“Rispondo subito alla tua obiezione” dice rivolgendosi a me.

“Il libro che hai visto era un semplice elenco telefonico che ho avvolto con una falsa copertina. Volevo tu credessi di essere malato, per affrontare con te un percorso alla scoperta di chi veramente sei”.

“Ritengo che Scrid abbia fatto un’analisi perfetta di quanto è successo, mi sentirei di condividere in toto le sue parole. Tu sei venuto qui con una malattia inventata, un falso problema. Ti sei fidato di me, e nel tempo hai scoperto doti e qualità che fino al giorno prima o non sapevi di avere, o facevi di tutto per nascondere. Il rituale che vi ho proposto era talmente eccessivo e palesemente surreale proprio per comunicare ad entrambi che la vera cura, non poteva che risiedere altrove”.

“Questo altrove, miei cari amici, è dentro di voi: e se siete stati cosi bravi nel leggere l’altrui problema, è giunto il momento che entrambi guardiate per l’ultima volta dentro voi stessi. Il mio lavoro può giungere fino a qui, fino a farvi aprire le finestre delle vostre stanze buie, fino ad aiutarvi a spolverare l’argenteria lasciata in disuso per 30 o più anni. Adesso spetta a voi vivere le vostre vite, e affrontare quanto sarete in grado di creare. Non di galleggiare, come nel suo caso” dice fissandomi, “o di posticipare, come nel suo, ma combattere per un obiettivo. Quale sia, non spetta a me dirlo”.

“Se non ricordo male è stato in occasione dell’uomo Rospo che il suo amico Paolo le ha confessato due cose importanti, se le ricorda?”.

“Che non sono l’unico e…che debbo imparare a conviverci, o qualcosa di simile” rispondo.

“Giusto, che cosa ha appreso dagli incontri con la donna con il volto di cavallo, l’uomo Rospo o la donna Poncho?”.

“Che ci sono demoni che…non vogliono essere salvati. Io riesco a vederli, ma loro amano il loro status. Ho vissuto una situazione di impotenza, ho visto il male di certe persone e mi sono reso conto che non avrei potuto fare nulla per salvarle, soprattutto perché erano loro le prime a non volerlo”.

“Per molte è meglio essere una donna Poncho che farsi salvare da me”.

Interviene Scrid: “tu puoi arrivare sino ad un certo punto, poi la scelta finale non spetta più a te. Se sei in grado di vedere certe cose, segui il tuo percorso in modo coerente, ed accetta che altri possano scegliere di essere demoni per sempre”.

Passano alcuni secondi prima che il dottore prenda ancora la parola.

“Scrid, anche nel suo caso il discorso è simile: l’analisi che il suo gentile amico ha fatto è assolutamente condivisibile. La ECI non esiste, non fugga, scoprirà che le sue risorse sono più che sufficienti a renderla felice, e a dare un senso alla sua vita”.

“Lasci che le racconti un’ultima cosa” dice infine rivolgendosi a me.

“Poco dopo aver cominciato le visite oggi è arrivata una signora con il figlioletto. Il bimbo piangeva, e piangeva, ma la madre continuava a sostenere che si trattasse di una finta per non andare a scuola. Ho toccato la fronte del piccolo, scottava. Ho consigliato alla signora di portarlo a casa e di metterlo al caldo, vi assicuro che era qui davanti a me e stava tremando. La donna ha cominciato a dirmi che non era possibile, che aveva un pranzo importante con delle amiche e che mai avrebbe rinunciato a causa di uno stupido moccioso imbroglione. Quella donna se ne è andata strattonando il figlio ed io…ho avuto modo di vederle la coda verde spuntare da sotto la gonna, e il suo viso allungato da alligatore salutare con mal celato odio. A volte è difficile convivere con i demoni, ma le nostre battaglie possono arrivare solo ad un certo punto, poi la vita degli altri si separa dalla nostra, per sempre”.

“…anche lei vede” dico io sorridendo, “…avrei dovuto immaginarmelo, non ha mai chiamato il manicomio quando le raccontavo le mie visioni..”

Mi sorride. “Vedo il male, ma vedo anche il bene, e per quello che è in mio potere, cerco di aiutare. E’ per questo che ho accettato di parlare ad entrambi, nelle vostre diversità siete due persone che valeva la pena accompagnare fuori dal pantano in cui entrambi stavate affogando”.

“Che ne dite di andarvene adesso?” dice sorridendo.

Ci alziamo insieme ed in silenzio ci avviamo verso la porta. Probabilmente sarà l’ultima vote che lo vedrò, e sono certo un po’ mi mancherà.

Saluta Scrid con un abbraccio e poi mi tende la mano che stringo con forza.

“Adesso spetta a lei, esca di qui, e affronti la sua vita, ne ha tutte le capacità”.

Cap 42 – La hacker

Per destare subito una buona impressione, ed evitare di essere catalogato tra le persone banali, telefono a Scrid alle 3.34 del mattino. Ho dovuto puntare la sveglia alle 3.20, non avrei potuto altrimenti.

Dopo un attimo d’imbarazzante e completa confusione, durante il quale ho creduto in sequenza di aver ricevuto la chiamata da un essere supremo, di essere sotto attacco alieno, e di aver votato Berlusconi, torno finalmente in me, e mi metto seduto sul letto.

Mi alzo, e silenzioso mi avvicino alla finestra. Le luci dei lampioni illuminano un paesaggio che sembra incantato. E’ come se una gigantesca macchina fotografica avesse immortalato per sempre un istante di pace. Sembra che tutto stia dormendo, esseri animati e cose inanimate hanno chiuso i loro occhi, in attesa di riprendere a vivere alle prime luci del sole. La pace assoluta che si respira viene di rado interrotta dal lontano eco di copertoni che solcano l’asfalto.

Persone che tornano alle loro case dopo turni di lavoro estenuanti, giovani spensierati che si spostano in massa verso l’ultimo bar, per il bicchiere della staffa con gli amici di una vita.

Penso a quando ancora le serate si chiudevano giocando a scopone scientifico in un bar vicino alla stazione dei treni. Da un lato anziani ingobbiti dagli anni e dai litri di rosso scadente, noi dall’altro, ad imitarne gesti e parole, mentre il fumo di sigarette rendeva la sala simile a quei paesaggi irreali, che solo la fitta nebbia del Veneto riesce a disegnare.

Di quelle serate mi è rimasto solo uno sbiadito ricordo.

Le scelte che ciascuno è costretto a fare nella propria vita cambiano irreversibilmente certe consuetudini; alcuni amici sono divenuti prima mariti, poi padri, altri se ne sono andati lontano, per fuggire da un’Italia ignorante e malvagia, altri ancora si sono semplicemente spenti, e lentamente la loro vita si è separata dalla mia, senza che veramente io ne abbia sofferto. Andati, scomparsi, cambiati, distanti.

Mentre sono ancora immerso in questi pensieri, comincio a giocare con il biglietto che Fabiani mi ha consegnato. “Scrid, che nome particolare. Non come Fruscalzo o Cunzia, ma sicuramente da annoverare nella mia particolare Top 5 di “nomi che darò ad un figlio non voluto”.

Secondo quanto mi è stato riferito dal Fabiani, la ragazza, perché sono quasi certo di ricordare che si tratti di una ragazza, è in cura da lui. Non soffre però di MCI, immagino quindi sia affetta da qualcosa di molto purulento e splatter come TBC, pertosse, denghe o meteorismo.

Divertito dall’ultima ipotesi, ed elevata quindi a verità assoluta, decido di entrare subito nelle grazie di Scrid, consigliandole un ottimo rimedio per il suo fastidioso problema.

Elaboro in pochi secondi la mia strategia di azione, che comporterà da un lato l’accettazione del suo problema e una rapida spiegazione di quelle che potrebbero rappresentare le cause, dall’altro qualche sano consiglio, preso a prestito dalla saggezza popolare.

Compongo il numero.

Risponde dopo soli tre squilli, la voce è assonnata, come è ovvio che lo sia. Dicono che per togliere un cerotto è meglio agire con decisione e non prolungare troppo a lungo l’agonia.

Vado subito al punto.

Fase uno: rapida presentazione. “Ciao, non mi conosci, mi ha detto di chiamarti il dottor Fabiani, dice che dovremmo incontrarci”.

Fase due: riconoscere e accettare l’altrui problema. “Sono consapevole che soffrire di meteorismo non sia una gran cosa, ma sappi che non ti giudico per questo.

Fase tre: le cause. Dicono che possa dipendere da differenti fattori quali: un aumento dell’aria ingerita, una iperproduzione di gas dovuta alla composizione degli alimenti, alcune intolleranze alimentari, come anche condizioni patologiche dell’apparato digerente, e un alterato assorbimento dei gas intestinali”.

Fase quattro: i saggi consigli. “Il mio consiglio, e ti parlo come una zia potrebbe parlare con il figlio dell’amico del fratello del postino, è quello di cibarti di tonnellate di carbone vegetale; è ottimo con la carne o semplicemente grattato su di una bruschetta, e lo accompagnerei con un sublime Barbaresco Conti della Cremosina”.

Rimango in attesa, non ottengo risposta.

Passano alcuni secondi, poi il telefono mi viene sbattuto in faccia. Mentre rifletto sulla poca gratitudine che a volte gli esseri umani manifestano, torno a letto e in meno di un minuto, mi addormento.

Quando squilla il mio iPhone sono sul punto di fare l’amore con Elisabetta. Si è appena tolta la maglia e non indossa il reggiseno. Si è voltata coprendosi maliziosamente il seno, e sta camminando verso la camera da letto, dove si preannuncia una festa da far impallidire il signor Bunga Bunga.

Nel sogno il suono del telefono diviene prima quello di una campana di una chiesa in lontananza, poi la sveglia della camera del Bunga Bunga, infine, (merda!), il mio iPhone!

Sono le 6 del mattino, mi sta chiamando Scrid, ed io la maledico.

“Preparati” mi dice, “c’è da salvare il mondo”.

Allietato dalla notizia, le sbatto il telefono in faccia e mi rimetto a dormire.

Alle 6.32 minuti qualcuno comincia a bussare alla mia porta. Prima due tocchi lievi, poi sempre più insistenti e fragorosi, alla fine sono colpi a mano aperta che potrebbero abbattere la porta da un momento all’altro.

Mi alzo furioso, afferro un coltello e mi avvicino all’uscio.

“Chi è?”.

“Apri, sono Scrid”.

Rimango interdetto, è possibile che Fabiani le abbia dato il mio indirizzo? Lo dubito. E allora come è riuscita a scoprire dove vivo?

Potrebbe essere un demone, rifletto, uno di quelli che leggono nel pensiero o diventano invisibili. Magari sono stato seguito, ed ora è davanti alla mia porta, pronta per lo scontro finale.

Poso il coltello, non mi servirebbe, afferro il mio bacchetto in legno, bacio per l’ultima volta Elisabetta, poi apro l’uscio.

Scrid è bionda. Mi colpiscono i suoi occhi azzurri, il colore mi ricorda per un attimo il logo di Skype. Indossa un paio di jeans bucati in più parti, e una maglietta Amnesty International. Detesto le sue Dr. Sholl’s da subito, non meno della borsa in canapa color verde su cui fa bella mostra una spilla con la A di”anarchia” o di “accidenti come amo la mozzarella di bufala”, non lo saprò mai.

Mi tende la mano.

Gliela pungo.

Non succede nulla, nemmeno un po’ di sabbia.

Mi calcia uno stinco.

“Pezzo di scema” le dico.

“Io sarei la scema? Tu mi hai punto.”

“Verificavo, temevo fossi un demone”.

“Contento allora? Non lo sono. Mi chiamo Scrid, abbiamo poco tempo, dobbiamo salvare il mondo”.

“Prima vorrei fare colazione” le rispondo, e senza aspettare la sua replica, le chiudo la porta in faccia.

Non faccio a tempo a raggiungere il mio vasetto di Nutella, che Scrid ricomincia a bussare come una pazza forsennata.

A malincuore la faccio entrare, più per evitare l’ennesima denuncia del Farino che per pietà.

Scrid si mette seduta davanti a me, e osserva in silenzio mentre mangio.

Come spesso succede, il quantitativo esagerato di nutella che sono solito depositare sul pane, è causa di una singolare pioggia di gocce color nocciola che imbrattano, quando ho un po’ di fortuna il pavimento, molto più spesso le mie gambe.

Scrid ride quando l’ennesimo gocciolone atterra sulla mia coscia destra, ma improvvisamente ritorna seria e mi guarda con un poco celato disprezzo.

“Sai che io ho partecipato ad una battaglia mondiale contro il consumo della cioccolata?”

Non mi lascia il tempo di manifestarle con uno sbuffo il mio completo disinteresse per la cosa.

“Intere popolazioni vengono sfruttate da sordidi capitalisti affinché coltivino per pochi dollari al giorno piantagioni immense di cacao. Nessuno si salva, donne, vecchi, bambini compresi. E’ una barbarie, ricorda che quando tu mangi cioccolata, ti stai lordando con il sangue degli schiavi”.

Mi guarda con disprezzo mentre io porto lentamente la fetta di pane alla bocca.

Un’altra goccia di nutella cade al suolo, maledetto Newton e la sua teoria strampalata!.

“Mi stai dicendo che non dovremmo più mangiare cioccolato?” le domando incredulo e sul punto di defenestrarla.

“Sei impazzito forse?” risponde tutto d’un fiato “tu lo sai che se cominciamo a togliere a certe popolazioni il sostentamento proveniente dallo sfruttamento delle risorse della terra, provocheremo la loro certa estinzione? Io ho partecipato ad una battaglia mondiale a favore il consumo della cioccolata, si chiamava Meglio ciccione che senza una popolazione

“Mi hai appena detto che hai partecipato ad una manifestazione contro, ed adesso mi dici che hai partecipato ad una a favore?”

“Certo. E se ti può essere utile anche ad una battaglia a favore delle donne lavoratrici ed una contro le donne che preferiscono andare a lavorare invece di stare a casa a fare la maglia; una a favore dell’abolizione dell’uso del congiuntivo e un’altra per il rispetto delle ferree regole grammaticali e la conseguente eliminazione di tutti i termini derivati dall’inglese; una contro la caccia alle foche e l’altra a favore dei poveri cacciatori costretti dalle contingenze della vita a cacciare foche; una contro la mignottocrazia e l’altra a favore delle donne che sanno di essere sedute su di un tesoro e lo usano a piacimento, una a favore e una in contra del nucleare. Continuo?”

“Ti prego”, la esorto, “ne sono affascinato”.

“Oggi manifesterò contro il razzismo, il buco dell’ozono, l’utilizzo degli Arbre Magique in macchina, contro la vivisezione, a favore della pesca a strascico, e per la pace. Domani contro l’arrivo degli immigrati in Italia, per la diffusione delle bombolette contenenti clorofluorocarburi, a favore degli esperimenti sugli animali, per la libertà di espressione manifestata anche attraverso addobbi tamarri alla propria vettura, contro la pesca a strascico, e a favore delle illuminanti battaglie per esportare la democrazia nel mondo.

Dopo queste rivelazioni, Scrid mi diventa improvvisamente simpatica. Per suggellare la nostra amicizia, mi pulisco la coscia con il dito indice della mano destra e glielo porgo. Rifiuta schifata, ma la cosa stranamente non mi offende.

“Secondo te”, domando, “perché Fabiani ha insistito tanto affinché ci incontrassimo?

Rimane per un attimo a riflettere, i suoi occhi si posano sul calendario di Elisabetta, si volge verso di me e sorride.

“Io sono affetta da ECI, eccesso cronico di iniziativa” confessa, “tutto il contrario rispetto alla tua MCI. Forse Fabiani voleva far incontrare due opposti, ma sto solo azzardando”.

“Tu come conosci la MCI, e come fai a sapere che io ne sono affetto?” domando infastidito.

“Ho letto il file in cui Fabiani annota i tuoi progressi, debbo dire che sei strano come tipo…voglio dire, vedi demoni giusto?”

Non sono certo sia più la rabbia o lo sdegno, mi sento improvvisamente tradito, è come se mi trovassi nudo davanti a Scrid, e lei stesse indicandomi con un dito, irridendo la mia figura, la mia persona, il mio essere uomo. Vorrei strozzare il Fabiani.

Cerco di recuperare un minimo di tranquillità, mi schiarisco la voce e le domando se per caso sia stato il dottore a farle leggere le mie carte.

“No, no, scherzi!”, risponde immediatamente, “con un piccolo stratagemma mi sono intrufolata nel suo PC, così adesso ho completo accesso a tutti i suoi file”.

Il mio sguardo perplesso provoca in Scrid una sonora risata.

“E come avresti fatto tutto ciò, di grazia?”

“Sono una hacker”, mi dice.

“..certo..capisco..come la torta

“No idiota, quella è la sacher”, risponde dopo un attimo di smarrimento.

“Sono una hacker, riesco ad intrufolarmi nei sistemi e pc altrui. Con Fabiani è stato sufficiente distrarlo un attimo, ho fatto partire un piccolo software di mia invenzione e… miracolo, tutti i suoi segreti più reconditi ed inconfessabili erano a mia disposizione!”.

“Nel tuo caso invece è stato ancora più semplice: ho scoperto la tua passione per la Canalis leggendo il tuo file, ti ho inviato una mail in cui si preannunciavano nuove foto di nudo, e tu come un tonto hai fatto click sull’immagine. In un attimo sono entrata nel tuo pc, senza che tu te ne accorgessi!”

“Pezzo di scema”, grido, “ieri mi è arrivata una mail così, e le foto non c’erano!”.

Ride di gusto, i suoi occhi adesso sono ancora più luminosi.

“E quindi? Mi stai dicendo che hai visto il mio Pc?”

“Sì tesoro”.

“Tutto?”.

Non smette di ridere e annuisce.

“Anche…”

“Le foto delle tue ex in topless in spiaggia? Sì. E i filmati? Anche. Quella raccolta di immagini nella cartellina nascosta tra i file di sistema? Oh mio Dio, sì, anche quella!”

Mentre Scrid continua a ridere di gusto, io mi passo la mano sul volto per la vergogna. Non è tanto per quanto è riuscita a vedere, ma per come sia riuscita a prendersi gioco di me.

Mi sento davvero umiliato.

“E’ così che sei arrivata al mio appartamento, lo avrai letto da qualche parte immagino..”

Torna seria per un attimo. “A me non interessa se tu guardi siti sconci, hai filmati porno con le tu ex o sei iscritto a un sito si S.a.S, volevo capire qualcosa di te, della tua MCI, e capire che cosa avesse spinto il Fabiani a farci incontrare”.

“Io una mezza idea della tua situazione me la sono fatta” continua, “però se sei d’accordo, direi di approfittare del momento. Mi piacerebbe raccontarti qualcosa sulla mia ECI e vorrei tu facessi lo stesso con il tuo problema. Se Fabiani ha spinto affinché ci incontrassimo, un motivo ci sarà”.

Annuisco, la proposta mi sembra sensata e mi permetterà di finire la colazione senza altre interruzioni.

Nei trenta minuti successivi vengo a sapere che Scrid non è il suo vero nome, che ha 27 anni e che ha scoperto di essere malata di ECI da circa due, alla fine del suo percorso universitario e in concomitanza con la fine di una relazione con Sergio, il suo fidanzato storico.

Da quel giorno ha iniziato ad imbarcarsi in tutte le lotte le sono capitate a tiro.

A causa di questa spirale di iperattività, si è allontanata dalla sua famiglia, e dagli amici di sempre.

L’incontro con il Fabiani è avvenuto in occasione di una manifestazione contro l’eccessivo l’utilizzo di consonanti ritenute “poco” eleganti, quali la “T” e la “R”.

Il dottore, che nell’occasione si era dimostrato tra i più temerari negli scontri con la polizia, le aveva parlato per un po’, tra uno slogan e una molotov.

Alla fine si era detto interessato a parlare del suo disturbo e le aveva fissato un appuntamento per il martedì successivo.

Da quel momento la vita di Scrid era cambiata: con il dottore aveva parlato molto, della sua famiglia, dei suoi amici, di quanto succedeva nel corso delle settimane.

“Poi un martedì” dice Scrid, “mi tira fuori un sacchetto di pillole e un foglio in cui elencate vi sono tutta una serie di attività da svolgere, una al giorno”.

“Il rituale!” la interrompo, “anche a me lo ha dato! Cose tipo ballare nudo, vestirmi da pagliaccio ed andare al mercato, guardare film 1000 volte..”

“Esatto, e le pillole che sembrano Mentos?” domanda lei.

“Anche a me sono sembrate Mentos” rispondo pensieroso.

Rimaniamo in silenzio per qualche secondo.

“Due malattie differenti…la stessa cura” dice Scrid, “non ti sembra strano?”.

“Ma è ovvio che la tua malattia è solo una stronzata” le rispondo, e prima di ascoltare le sue ovvie rimostranze le espongo il mio parere.

“Insomma, è evidente che non sei malata, la ECI non esiste!. La mia impressione è che tu stia solo fuggendo da qualcosa. Ti imbarchi in mille battaglie ma realmente, non credi ad alcuna di queste. Combatti contro una cosa un giorno, il giorno dopo ne sei a favore, il terzo hai già dimenticato le prime due e sei intenta a battagliare per non si sa bene cosa”.

Anche se non sono certo di fare la cosa giusta, continuo a manifestare alla ragazza le mie idee, mi sembra così evidente la realtà che non riesco a tacere.

“Non offenderti, ma la mia impressione è che tu non abbia realmente rielaborato due cose: la fine della tua storia, e il cambio drastico che impone uscire dall’università. Ti faccio una ipotesi: hai perso il fidanzato, probabilmente ci avevi investito troppo. Lui non era semplicemente una persona, ma era diventato parte di te. Così quando ti ha lasciata, non hai perso un uomo, ma è come se avessi perduto un braccio, il cuore, qualcosa che prima ti apparteneva. Bella maturità, lascia che te lo dica. Scrid rimane Scrid a prescindere dal fidanzato che ha o non ha. Quindi se ti molla, pazienza, ci rimarrai male, ma hai perduto una persona, non te stessa. E il discorso dell’università, è ovvio! Il giorno prima sei una studentessa modello, il giorno dopo devi darti da fare per lottare, affermarti, consolidarti come persona nel mondo. E’ un lavoro che comporta sacrificio, pazienza e forza di volontà, è una completa ridefinizione di chi siamo e del nostro ruolo. Invece di impegnarti, tu perdi tempo in 1000 battaglie, così da avere una scusa per non affrontare la tua vita. Credo che Fabiani ti abbia preso in cura solo per pietà. Tu non sei malata, non vuoi semplicemente crescere e hai paura di lottare per qualcosa in cui realmente credi”.

La risposta di Scrid non si fa attendere: “Ma senti questo! Come ti permetti? Dimmi solo una cosa, chi si è inventato la malattia MCI? Sei stato tu, non ne parla alcun libro, ho già controllato. Hai 36 anni, ti inventi una malattia solamente perché hai così la scusa per continuare a galleggiare invece che prendere in mano la tua vita. Sei pieno di pregi ma fai di tutto per sabotarti. Dici di non avere iniziativa, ma guarda caso vai a caccia di demoni, e non negarlo, ricordati che ho visto il tuo computer. La ECI è inventata? No signorino, la MCI non esiste, ci sei solo tu che ti stai buttando via. Non sei malato, non hai nulla, tutto sta in te, e devi darti una mossa se vuoi navigare e non galleggiare”.

Rimaniamo in silenzio a fissarci.

Scrid sembra turbata, per un momento ho come l’impressione che sia sul punto di piangere. A dire il vero voglia di piangere ce l’ho pure io, ma non lo farò, almeno non davanti a lei.

La MCI è una stronzata? Tanto quanto la ECI? E se fosse così, quale sarebbe il ruolo del Fabiani in tutto questo? Non riesco a darmi una risposta.

“Forse è meglio che io vada” dice Scrid alzandosi.

Non tento nemmeno di fermarla, l’unica cosa di cui abbiamo bisogno è riflettere su quanto ci siamo appena detti.

Si avvia verso la porta, ma prima di uscire si gira e mi porge la mano.

“La ECI esiste, la MCI no, ma rifletterò su quanto mi hai detto”.

“No, la MCI esiste..e la tua ECI è una stupidata…ma…ci rifletterò pure io” le rispondo.

Le stringo la mano e le sorrido.

Non mollo la presa, e appena lei accenna a voltarsi, porto la sua mano all’altezza della mia bocca.

Con decisione mi metto in bocca il suo dito indice e comincio a mordicchiarlo.

Scrid grida e riesce con uno strattone a togliere il dito dalla mia bocca. L’impeto ha causato una piccola lacerazione della pelle che comincia a sanguinare.

“Che cazzo fai?” esclama con gli occhi sbarrati.

“Verificavo l’informazione, confermo, sei hacker..non sacher”.

Se ne va senza salutarmi, la vedrò lunedì, per l’ultimo incontro dal Fabiani.

Cap 41 – Gli S.a.S

Non salverò il mondo, di questo oramai sono certo, ma almeno potrò renderlo migliore, eliminando il maggior numero di demoni possibile.

Questo è la prima cosa cui penso il martedì mattina. Non alla Nutella, e nemmeno alla scusa per non andare a lavorare. Evito di concentrarmi su alcuni evidenti segnali fisici, indicativi di una concentrazione di testosterone ancora a livelli accettabili; si sa, una cosa tira l’altra, e vorrei conservare per un po’ di tempo ancora le poche diottrie rimaste.

Ecco una cosa interessante da fare: aprire il vocabolario e verificare l’esistenza della parola “idiottria”, ovvero l’unità di misura per riconoscere un ignorante a colpo d’occhio, o di “pupille gustative”, attraverso le quali osserviamo cibi abbondanti e all’apparenza succulenti.

In caso contrario, cercare sulle pagine bianche online il numero di telefono del signor Devoto o del signor Oli, e comunicare loro le modifiche da apportare alla nuova versione del vocabolario.

Sono al settimo cielo, non c’è che dire, penso alla mia missione, alla sovrastruttura di obiettivi, regole e interazioni che regoleranno e restituiranno senso alle mie azioni nei prossimi giorni.

Sono ancora un uomo in prigione, ma con il mio cucchiaino sono riuscito a scavare un tunnel sufficiente ampio da permettermi di fuggire, di respirare, forse per la prima volta, l’aria nuova della libertà. Ho davanti l’ultima settimana di vita “imprigionata”, da lunedì prossimo sarò definitivamente libero dalla mia MCI.

Mi crogiolo mentre penso alle decine di cose che potrò fare: potrei decidere di punto in bianco di fare il giro del mondo, di trasferirmi in India e dedicare la mia vita ai più bisognosi, di fare il mago o il cuoco in tv, di diventare un miliardario e dedicare la mia vita a leggere libri di Bruno Vespa.

Nel frattempo, ho solo un impegno in tutta la settimana, telefonare a questa ragazza di nome Scrid, e scambiarci due parole. Pochi impegni significano solo una cosa, molto tempo libero da dedicare alla mia caccia.

Un pensiero continua ad assillarmi: come posso riuscire ad eliminare i demoni che man mano incontrerò? Secondo quanto mi è stato riferito da Paolo debbo solo imparare a conviverci, io tutto sommato vorrei qualcosa in più, magari essere il primo in grado di sterminarli.

Potrebbero dedicarmi una statua un giorno, “A colui che ci liberò dai demoni”. La vorrei in marmo, di proporzioni simili al Colosseo. Vedo un’enorme massa di demoni morti ed io in cima a questa montagna, armato del mio stuzzicadenti magico.

Mi alzo dal letto e mi dirigo in cucina. Mi trascino lentamente, sono come un’automobile diesel che necessita di tempo per andare a regime.

Finisco la mia abbondante colazione e mi siedo davanti al computer. Ho pensato a questa opzione ieri notte, prima di addormentarmi: in che modo attualmente le persone cercano le cose cui sono interessate? Risposta: Google.

Perché allora non cercare anche online i demoni? Di gente malvagia è pieno il mondo, magari si vedranno in forum o blog per parlare delle loro nefandezze o delle loro teste di cavallo.

Apro la pagina di Google e digito: “demoni”. 6.350.000 risultati, un po’ tanti. Affino la ricerca aggiungendo via via nuove keywords sino a quando mi imbatto in un qualcosa di interessante.

Si fanno chiamare S.a.S e si definiscono Scambisti adoratori di Satana. La homepage page è un delirante affresco della loro filosofia di vita: non credono in Dio, ma nel suo gemello cattivo. Sono convinti che attraverso il sesso non monogamo si potrà raggiungere l’estasi e la purificazione. Qualche foto, un blog, un gruppo in Facebook ed un forum.

“Questa volta, miei cari demoni, sarà la montagna ad andare da Maometto” pronuncio a denti stretti.

Non mi è difficile farmi accettare; delle buone conoscenze sulle dinamiche di gruppo online, e qualche bella foto di una ex in topless fanno il resto. Ricevo ben presto gli accessi e mi presento a tutti con li nickname Zozzodizolfo69.

Dopo qualche approccio andato a vuoto, riesco finalmente ad agganciare la mia prossima vittima, una ragazza che dalla foto valuto avere 25 anni, nickname “Schiavadeldemonio”.

Le invio una mail proponendole del sesso sufficientemente strano da farle comparire sporadiche ciocche di capelli bianchi o in alternativa, di sgozzare un gattino.

Cade facilmente nella trappola ed opta per l’opzione B.

Dopo aver annotato nella mia personale agenda del rimorchio che l’approccio “Ciocca di capelli bianchi” non sortisce l’effetto desiderato, comincio a riflettere sul dress code da adottare per un evento mondano come quello che mi appresto a presenziare.

La prima idea che mi sovviene è quella di arrivare cavalcando un caprone: mi sembra logico supporre che se le brave ragazze sognano il principe azzurro che monta un bianco cavallo, è facile che una come Schiavadeldemonio fantastichi di un uomo peloso a cavallo di un caprone.

Faccio una rapida ricerca in Google ma non trovo alcun maneggio e/o noleggio di caproni nella zona. Idea bocciata.

L’appuntamento è per le 14 del mercoledì, ho tempo a sufficienza per preparare con dovizia di particolari, l’agguato. Decido di evitare accuratamente di farmi la doccia affinché il mio odore possa sortire un effetto afrodisiaco nella peccatrice.

Mi alleno a salutarla parlando al contrario, memore dei molti messaggi satanici che sono certo di aver individuato in passato  facendo girare al contrario i dischi di Pupo e dei Ricchi e Poveri di Bianca.

“Oaic Schiavadeldemonio oteil id eraf al aut aznecsonoc”…

Oppure: “Leb oproc, otaccep ehc a everb arinif otazlifni emoc olleuq id naS onaitsabeS”.

Da Stefan prendo in prestito una maglietta degli Slayer raffigurante un inquietante girone infernale e per finire, con abile gioco di Attak, riesco a capovolgere il crocifisso regalatomi da mio zio il giorno della mia prima comunione.

L’appuntamento è per le 3 del pomeriggio del mercoledì.

Alla fine abbiamo optato per un semplice bar, nonostante io avessi a lungo insistito per un primo incontro presso la cappella del cimitero. Arrivo alle 3.15 per darle prova della mia sconcertante personalità e mettermi in una situazione dominante.

Mi prova la sua sconcertante personalità arrivando alle 3.30. Non sono certo se a mettermi in soggezione sia il suo comportamento, o la sua bellezza, fatto sta che mi sento a disagio dal primo momento che la vedo.

E’ più bella di persona che in foto, mi dispiacerà quando la vedrò tramutarsi in sabbia.

“Oaic Schiavadeldemonio oteil id eraf al aut aznecsonoc”…esordisco.

“Che?” .

“Ho detto, oaic Schiavadeldemonio oteil id eraf al aut aznecsonoc”

“Non capisco” risponde sgranando gli occhi.

Annoto mentalmente che a) o questa Schiavadeldemonio non è una satanista come dice o b) non ci sono più i demoni di una volta.

Mi spiazza dimostrandomi incredibili doti di chiaroveggenza: “Quindi tu saresti il tipo strano che mi ha proposto di fare sesso o in alternativa sgozzare un gattino”.

“Come hai fatto ad indovinare” domando in maniera inquisitoria, adoro prendere in castagna i messaggeri del demonio.

“Vediamo…magari perché ti ho riconosciuto dalla foto mi hai spedito?”

Bella ed intelligente, una donna pericolosa, rifletto.

Valuto per un secondo la possibilità di negare e presentarmi come Ajmed, un giovane marocchino che cerca di ripercorrere le gesta di Kledi, il ballerino albanese di Maria De Filippi, ma capisco al volo che la bugia non reggerebbe a lungo.

“Comunque io sono Giovanna, nel caso ti interessasse la cosa” e dicendolo mi tende la mano.

La lascio alcuni secondi in quella buffa posizione. Senza un motivo ben preciso comincio ad immaginarla addobbata con palline natalizie, la cosa mi diverte a tal punto che mi scappa una risata.

“Sono tanto buffa?” domanda irritata.

“Addobbata con palline di natale lo saresti” le rispondo seriamente…non voglio creda che io sia un tipo strano.

Ci riflette per alcuni secondi poi annuisce: “Sì, sarei buffa”

Si siede accanto a me, per sua sfortuna la posizione migliore per essere trafitta dal mio paletto caccia demoni.

Decido di non terminarla subito, quindi intavolo un interessantissimo monologo sui nessi causa-effetto esistenti tra l’usare il filo interdentale ed essere del segno dell’acquario.

Il nocciolo della questione ruota attorno al fatto che l’acquario è indipendente, generoso ma a volte irascibile, mentre il filo interdentale ha la doppia valenza costrittiva data dall’obbligatorietà temporale – usarlo almeno una volta al giorno – e quella simbolica – una corda che lega-.

Non sembra completamente presa dalla mia arte oratoria, ma non smette di fissarmi e questo provoca in me un certo trambusto ormonale.

Finisco il mio bicchiere di spuma e decido di farla finita.

La distraggo con la più classiche delle scuse: “Non è una tarantola quella cosa dietro di te?”

Lei grida, si allontana rapidamente dallo schienale della poltroncina in cui è seduta, lasciandomi il bersaglio completamente libero.

Faccio partire lo spiedino, la punta si conficca nel centro della sua natica destra…non vedo sabbia.

“Ahi! Ma sei cretino?” grida girandosi.

La pungo un’altra volta, questa volta all’altezza della coscia sinistra. Il buco nel jeans è evidente.

“Smetti di pungermi con quello stuzzicadenti, scemo!”

“Non c’è sabbia…cioè, non ti sei trasformata in sabbia” le dico incredulo.

“Perché avrei dovuto trasformarmi in sabbia, razza di imbecille?” risponde passandosi la mano sopra la ferita.

“Perché sei un demone” le rispondo.

“Io non sono un demone” ribatte.

“Ti ho conosciuta in un forum di scambisti adoratori di Satana, e sei qui per sgozzare un gattino” replico io.

“Ma tu sei fuori” risponde “Io non sono né una scambista, né una adoratrice di Satana, e per tua informazione ho 3 gatti a casa”.

“Morti?”

“No”

“Che ucciderai?”

“Ma no!”

Ci rifletto alcuni secondi.

“Torture? Magari a volte?”

“Noooooooo”.

“Ok, ok, non ti arrabbiare. Perché eri in quel forum allora?” domando.

Sorride. “Sono dei tipi folli..gli unici che mi ascoltano e mi credono quando racconto loro le mie storie e i miei casini. Molti sono da evitare, ma ci sono persone di gran cuore anche tra di loro, devi solo vincere il pregiudizio e conoscerli”.

Giovanna continua a massaggiarsi la gamba sinistra. Noto le sue mani, sono curate anche se confesso di detestare il suo smalto viola scuro.

Comincia a raccontarmi qualcosa di lei dopo poco, senza che io le chieda nulla. Mi parla dei suoi sogni, della sua famiglia, dei suoi gatti “così pigri da sembrare di peluche“.

Ascoltarla mi rilassa, i suoi racconti sono a tratti buffi, a tratti drammaticamente sinceri. Scopro che nella sua vita ci sono stati molti uomini meschini, che hanno approfittato della sua ingenuità per affondare delle lame nel suo cuore, che queste esperienze la hanno forgiata, fatta più forte, pragmatica, disillusa.

Fissandomi negli occhi mi dice che trova più semplice incontrare affetto ed umanità in gruppo come gli S.a.S, piuttosto che in altre situazioni socialmente e moralmente più normali e accettate.

Sono completamente perso nel suo sguardo, seguo il movimento delle sue labbra come fossero l’orologio che il dottore fa oscillare davanti a chi vuole ipnotizzare.

Incapace di resistere più a lungo e spinto da una strana forma di euforia e felicità che sento nascere all’interno, le propongo di baciarmi.

“Direi di no” risponde divertita, ma senza esitare un secondo.

Per un attimo ho l’impressione che a colpirmi sia stato Mike Tyson, la doccia gelata ed inaspettata mi riporta alla realtà.

Sono in un bar, davanti ad una ragazza che ho appena cominciato a conoscere. È bella, e ci sono stato bene. Mi ha appena rifiutato.

Rivedo come un flashback quanto successo con Annalisa: una persona interessante, uno scambio acceso di vedute, un addio.

Cosa posso guadagnare da Giovanna? Ci sono stato bene, è intelligente, sensibile, simpatica. Un giorno potremmo davvero innamorarci. Cosa posso perdere? Potrebbe essere un’altra Annalisa, potrei perderla per sempre.

Questa volta non voglio che la cosa si ripeta.

Respiro profondamente, la rabbia che per un attimo era salita a livelli di guardia si attenua, quando sono più rilassato le parlo: “Vediamo se indovino, ti sono simpatico, ma non sei in cerca di un’avventura. Hai ragione, sono stato un po’ precipitoso, ti prego di perdonarmi. Ti faccio un’altra proposta, mi piacerebbe poter uscire con te, come due amici”.

“Io e te amici…” riflette ad alta voce, “senza baci, senza sesso”.

“No, non lascerò che tu ti approfitti di me” le rispondo.

Ride. “Ok..ci sto…prometti però due cose”.

“Vai” rispondo

“Niente più spilloni o stuzzicadenti strani”.

“Promesso”.

“E la prossima volta ti lavi..”

Le sorrido ma non le prometto nulla…è ovvio che la mia essenza di vero uomo ha già cominciato a fare effetto su di lei.

Cap 40 – La luce in fondo al tunnel

Di argomenti per il Fabiani ne ho a bizzeffe: dovrò raccontargli che non ho seguito alla lettera il suo rituale, che ho visto tre demoni, e soprattutto cercherò di confrontarmi con lui su quelli che sono stati i miei tentativi di combattere i mostri.

Non male come programma, speriamo che i minuti che mi dedica siano sufficienti. Decido che è il momento di dare il colpo di grazia alla Barba, la indosso per la terza volta consecutiva, se non la lavo, la prossima volta verrà lei a cercarmi.

Vorrei che il Fabiani mi vedesse un po’ elegante, mi sembra quasi di doverglielo. È una questione di rispetto: lo ricevo da parte sua, che puntualmente mi accoglie nel suo studio, sempre (o quasi) impeccabilmente vestito, ma non lo restituisco, e questo comincia a pesarmi.

Un paio di Prada e una Barba non cambiano una persona, di questo sono consapevole, ma in un rituale sociale delimitato da comportamenti e aspettative, non è sbagliato adeguarsi in alcune occasioni.

Tanto per essere chiaro, se qualcuno venisse al mio funerale in infradito e canottiera, la prima cosa che farei, una volta divenuto fantasma, sarebbe di spaventarlo ogni notte con grida, apparizioni e rumori di catene; avrò tempo di fare l’hippy quando andrò ad Ibiza, dal Fabiani sarà il caso di presentarmi in modo coerente.

Parcheggio la Graziella al solito posto e mi guardo intorno alla ricerca della Donna Poncho; la prima volta che la ho vista è stata proprio qui, ma oggi di lei non c’è traccia.

In compenso noto uno strano via vai di gente, poco comune vista la zona, e soprattutto l’ora. Guardo l’orologio, sono in anticipo di circa 20 minuti, decido di seguire la massa per capire che cosa stia succedendo.

Mi rendo conto che le persone stanno muovendo verso la piazza del municipio, molti sono armati di striscioni che vanno srotolando man mano si avvicinano. La conclusione che ne traggo è che a breve si terrà una manifestazione, a favore o in contra di cosa, ancora non lo so, ma sono deciso a scoprirlo.

Domando ad un ragazzo che incrocio un po’ di informazioni.

Mi risponde che la gente si è mobilitata per protestare contro il nostro sindaco: sembra che in un “eccesso” di umana solidarietà, abbia deciso di negare la mensa ad una bambina extracomunitaria. La gente ne ha parlato, si è indignata, ed ora marcia compatta per chiedere le sue dimissioni.

Una ragazza che blocco poco dopo, completa il quadro: non solo il sindaco pretende che la bambina non mangi, ma impedisce alle maestre di donare alla piccola il loro pasto.

“Ecco un altro demone” penso, “ci scommetterei il braccio destro di Stefan“.

L’unica cosa che mi rende sereno, è vedere che le persone, a prescindere dal colore politico, si siano comunque mobilitate.

E’ stata una reazione ovvia, sensata, normale davanti a tale scempio. La società ha detto no, si è scandalizzata. Non si è trattato di destra o sinistra, ma solo di buon senso. A muovere tutti costoro è stata la semplice consapevolezza che quando in una società civile viene a mancare una base concreta di rispetto per la persona, di solidarietà verso chi ha realmente bisogno, allora quella società è destinata ad implodere nel suo egoismo, nella perfidia, nella becera e rimarchevole vendetta.

Solo in un film, o un libro, qualcuno potremme  immaginarsi una società così assuefatta alla ignoranza e alla crudeltà, da lasciare che certi personaggi continuino a governare indisturbati.

“Questa è la realtà” penso soddisfatto, “da noi certi meschini, corrotti, corruttori, imbroglioni sono cacciati via a pedate”.

L’orario dell’incontro è prossimo, anche se a malincuore, me ne torno verso lo studio.

Arrivo giusto in tempo per vedere la porta del consultorio aprirsi. Fabiani mi osserva da capo a piedi per due volte prima di tendere la mano e salutarmi.

Ci accomodiamo in silenzio, lui legge un’ultima volta i suoi appunti, poi esordisce come da copione: “Mi dica, come ha trascorso la settimana”.

Cerco di essere il più chiaro possibile, peso le mie parole per evitare fraintendimenti, sarebbe del tutto disdicevole entrare da un medico per liberarsi dalla MCI, ed uscire con la camicia di forza a causa di confessioni mal esposte.

Un po’ in imbarazzo gli comunico che ho volutamente saltato la cura in almeno due occasioni, la cosa non sembra turbarlo più di tanto, l’unica cosa che si limita a domandare è se io abbia notato ricadute o cambi repentini.

“No, direi di no” rispondo sinceramente, e lui mi fa cenno di proseguire.

Gli racconto del mio strano incontro al mercato, ma mi blocco al momento di descrivere per filo e per segno la trasformazione cui ho assistito.

“Mi dica” mi esorta “le assicuro che non vi è nulla di strano, e nulla di ciò che mi racconterà potrà turbarmi, vada avanti. Mi stava dicendo che questa donna inveiva contro di lei, e poi?”.

“…e poi, cavolo..non so come dirglielo. E poi si è trasformata in un cavallo”.

Mi aspetto di vedere il dottore chiamare ed ordinare un TSO, ma rimane impassibile a fissarmi. Appunta qualcosa sul notes e mi chiede di procedere.

Un po’ rinfrancato, continuo con il riassunto delle ultime vicende, gli parlo della notte del giovedì e di come io abbia cercato di salvare il marito della donna cavallo utilizando un fucile a pallini, poi gli racconto dell’uomo Rospo ed infine della Donna Poncho.

Alla fine mi guarda ed accenna un sorriso, rilegge i suoi appunti e sorride ancora.

Valuto se rompergli il naso scaraventandogli un libro con tutta la mia forza, decido di passare.

Questa volta è lui a parlare. “Mi sembra di vedere che lei abbia fatto acquisti ultimamente. La felicito per la sua Barba, un’ottima camicia, anche se, se lo lasci dire, spendendo la metà potrebbe avere qualcosa di più suo, personale, speciale solo per lei”.

Il bordo della giacca si sposta quel tanto da mostrare chiaramente le iniziali ricamate della camicia.

Il figlio di buona donna ha visto che gliela stavo adocchiando, e mi ha preso in castagna.

“Se le interessa posso darle il numero della camiceria dove le mando a fare, vicino a Treviso”.

“Volevo qualcosa di elegante”, rispondo, “è stato come un regalo che mi sono fatto, sentivo il bisogno di…dirmi che mi merito qualcosa”.

Il dottore mi guarda quasi compiaciuto.

E’ lui quindi a prendere l’iniziativa. “Mi permetta quindi di fare un piccolo riassunto della situazione” dice, “e come sempre, si senta libero di interrompermi qualora la mia ricostruzione sia errata, o manchi di qualche dato importante”.

“Lei è qui per curarsi dalla sua mancanza cronica di iniziativa. Siamo partiti parlando dei suoi affetti. Nel corso dei nostri incontri abbiamo scoperto che la famiglia che tanto idealizzava, nascondeva un qualcosa, giusto?”

Non mi lascia il tempo di rispondere, ma in effetti sta dicendo cose sensate.

“Investigando abbiamo scoperto l’esistenza di una madre che, nel tentativo di far capire al figlio l’importanza dello studio, della dedizione al lavoro e dell’importanza del sacrificio, si è trasformata in una sorta di aguzzina. Non in realtà, sia chiaro, ma così è stata interiorizzata da quel ragazzo, ovvero lei. Con gli anni, la voce di sua madre è divenuta così pressante e onnipresente, che le ha impedito di imparare a gioire delle cose. Un giorno credo, si è definito incapace di provare piacere per le cose, giusto?”.

Taccio ancora.

“Cosa mi dice di suo padre, non ne abbiamo mai parlato”.

Penso per un attimo alla figura di Ioli, a quanto ha faticato per costruire quello che ora possiede. Me lo ricordo tornare a casa stravolto dal lavoro ed avere la forza solo per mangiare e trascinarsi a letto. Mai una serata con gli amici, un cinema, una pizza, solo lavoro, dedizione, e qualche settimana di vacanza all’anno.

Tempo per me, davvero poco, ma più in generale, tempo per se stesso, praticamente nullo.

“Ioli lavora sempre molto, arrivava stanco e alle 9 era a letto” rispondo con voce sommessa.

“Possiamo quindi definirlo..un padre, assente?”

“..ha molte cose da fare, per mantenerci…”

Fabiani tace e continua a fissarmi, il suo sguardo mi perfora la carne e si fa insostenibile.

“Io adoro mia madre, e mio padre, e li stimo entrambi” rispondo.

“Non è quello che le ho domandato. Non stiamo ponendo in dubbio la qualità dei suoi genitori. Cerchiamo solo di capire come si sia plasmato lei in funzione dei loro comportamenti, soprattutto perché si ricordi, lei era un bambino, incapace quindi di comprendere appieno certe dinamiche familiari e affettive”.

“In questo caso, direi di sì allora, probabilmente Ioli è stato un po’ assente nella mia vita”.

“Certo” risponde, “è coerente”.

“Torniamo a lei. Questa situazione, un padre assente, e una madre vissuta quasi come aguzzina, hanno generato in lei una confusione di ruoli, attribuzioni ed aspettative. La confusione di cui parliamo” continua, “non è però data da una intrinseca mancanza di qualità, ma dal fatto che certi suoi plus sono stati nascosti, per far spazio ad immagini idealizzate di lei che abbiamo già individuato. In una delle ultime volte abbiamo distrutto la sua idea di essere una sorta di supereroe, di poter controllare le menti altrui, di essere bello, e abbiamo cominciato a fare luce su altri aspetti positivi che le persone accanto a lei le riconoscono: lei è onesto, sincero, ha il dono speciale di vedere più chiaramente l’anima e la sostanza delle persone”.

“Oggi mi racconta che la sua sensibilità nel vedere il bene delle persone, vale anche per gli aspetti negativi. Lei li ha chiamati demoni, di sicuro…mi lasci controllare” sfoglia gli appunti, “la donna cavallo stava manifestando atteggiamenti razzisti, il Rospo era alquanto…ignorante, e la Donna Poncho, si commenta da sola”.

“Tutto questo lei lo ha scoperto..in che modo?”

Non capisco la domanda e rimango in silenzio. È probabile che da me voglia uno sforzo in più dal momento che il silenzio perdura per almeno un minuto.

Cambio posizione sulla sedia e rifletto sulle sue parole.

“Non saprei, insomma giovedì ero al mercato per il rituale, e poi sono andato a salvare l’ometto, venerdì ho deciso di non seguire il rituale e ho finito con il piantare un bacchetto di legno nella mano di uno sconosciuto, e sabato ero a caccia di demoni”.

“Ho deciso, sono andato, ho fatto…tipiche iniziative di chi è affetto da MCI” commenta il dottore, ed il sarcasmo è tutto tranne che celato.

“…forse” rifletto ad alta voce, “il fatto di essermi reso conto che sono in grado di vedere certe cose, mi ha un po’ sbloccato. In effetti” continuo, “sabato sono uscito con un obiettivo, ho cercato un demone, e lo ho trovato…nessuno mi ha obbligato, nel senso, non era previsto dal suo rituale”.

“Rituale che lei ha abbandonato, senza peraltro pregiudicare alcunché” dice il dottore.

“Direi di no” rispondo pensieroso, anche se in fondo sento crescere in me una strana sensazione, un mix di orgoglio e soddisfazione.

“Però non ho sconfitto i demoni” rispondo in uno di quegli slanci autodistruttivi che compio non appena mi rendo conto di aver fatto qualcosa di buono.

“Dia tempo al tempo” risponde il Fabiani che continua “lei ha fatto dei progressi, credo se ne stia rendendo conto. Abbiamo fatto luce all’interno della sua stanza, abbiamo messo ordine. Lei adesso sa quello che realmente è capace di fare e spero, con il tempo, anche quello che non è capace. Negli ultimi giorni ha preso delle iniziative, alcune grandi altre più piccole, ma non creda per questo meno significative. Si presentava da me come un hippy, oggi si è presentato come un uomo, senza che io le abbia detto nulla”.

“Le faccio una proposta: questa settimana lei ha un unico compito, smetta pure con le pastiglie. Ne mangi una solamente venerdì. Voglio che lei contatti questa persona, si fa chiamare Scrid e vorrei che la incontrasse”.

Mi allunga un foglietto in cui vi è appuntato un numero di cellulare e il solo nome Scrid. Mi stupisce che lo avesse già pronto, non ho visto mentre lo scriveva ma è stato molto celere nel cogliere il momento adatto per consegnarmelo. Sembra quasi che si aspettasse le mie parole.

“È una mia paziente, non è affetta da MCI ma da qualcosa di diametralmente opposto. Sono certo che entrambi potrete trarre qualcosa di buono l’uno dall’altro. La veda e poi lunedì prossimo tornate insieme da me, stessa ora. Sarà il nostro ultimo incontro, che gliene pare?”

Quali sono le reazioni tipiche di un organismo attraverso il quale si manifesta una sensazione come la gioia?

Il cuore batte più forte? La pressione sanguigna aumenta? Non si riesce a smettere di sorridere, si sente una voglia irrefrenabile di gridare, di alzare i pugni al cielo?

Credo di sperimentarle in successione tutte, più volte.

I miei minuti sono finiti, allungo il denaro al dottore che con un gesto mi blocca.

“Se adesso avesse a disposizione quel denaro” mi dice, “come lo spenderebbe?”.

Sembra una domanda trabocchetto, potrei vendergli la storia che mi sono redento e dirgli che li userei per “la pace nel mondo” o “perché sia sconfitta la malaria”, con le varianti rappresentate da cancro, AIDS, pertosse e gomito del tennista. Potrei puntare sull’abolizione della pena di morte o l’acqua nel Sahara.

Alla fine decido di dirgli la prima cosa che realmente ritengo giusta: “Mi comprerei una delle sue camicie”.

Mi sorride e mi allunga un secondo foglietto, questa volta ci sono l’indirizzo, il nome e il telefono della camiceria di Treviso di cui mi parlava.

Il fatto che anche questo foglietto fosse già pronto mi manda su tutte le furie, ho l’impressione che riesca a leggermi nel pensiero.

Valuto se testare il mio bacchetto “scova demoni” anche sul dottore, ma lui mi blocca prima che io decida se attaccare o meno.

“Non sono un demone”, glielo assicuro. “Ho imparato a conoscerla, e se le dico che la prossima volta sarà l’ultima, c’è un motivo”.

Mi sorride, ci salutiamo sulla porta come sempre.

Tornato in strada controllo nuovamente l’ora, la manifestazione è sicuramente cominciata, ma ho tempo di raggiungere il municipio e di aggiungere la mia voce al coro di persone indignate.

Cap 39 – La Donna Poncho

La prima cosa che vedo appena apro gli occhi è il paletto da spiedino con il quale ho infilzato il Ric. La punta è di un colore scuro, vi sono ancora i rimasugli del suo sangue.

Stefan è stato molto gentile, prima di uscire dal locale, ha approfittato del trambusto che si era creato, per rubarlo.

Sono indeciso se farlo incorniciare o continuare ad usarlo in quella che sarà la mia nuova missione: scovare e sconfiggere i demoni.

“Non sono demoni”, mi ripeto ad alta voce, questo me lo ha detto chiaramente Paolo, sono semplicemente persone malvagie, che io riesco ad individuare grazie ad spiccata sensibilità.

La stessa sensibilità, sia chiaro, che ho utilizzato per vedere un genio dove molti vedevano un timido burocrate.

Nel bene e nel male, rifletto, sono una specie di supereroe.

Mi rigiro ancora nel letto, l’idea di essere una persona speciale mi elettrizza; se è vero, come tutti dicono, che ho un dono, mi aspetto di scoprire a breve di possedere altri poteri, coerenti e ovviamente conseguenti al primo, quali: volare, volare senza mani, volare senza mani canticchiando canzoni, passare attraverso le pareti, passare attraverso le pareti senza mani, passare attraverso le pareti senza mani e canticchiando canzoni.

Non so quando comincerò ad investigare la cosa, per ora mi accontento che sia sabato e che quindi vi siano ben due giorni davanti a me per poter proseguire la mia ricerca.

Tra le altre cose, se con uno sforzo pari a 100 io riesco a vedere il bene o il male di una persona, impegnandomi un po’ meno, diciamo 50, potrei semplicemente riuscire a vedere attraverso i vestiti delle persone, opzione decisamente allettante.

Faccio colazione con pane e nutella, mi vesto e piombo senza avvisare a casa dei miei. Ioli e Bianca sono oramai abituati a queste sortite, in fondo credo a loro faccia piacere.

Sveglio mio padre mentre cerco nel suo armadio i documenti dell’adozione, la smoking gun che certifichi che Quella è stata adottata. Secondo i miei ultimi calcoli, i miei genitori debbono aver adottato una sorta di nascondiglio mobile, un marchingegno tale per cui i documenti appaiono in un posto “x” solo ed esclusivamente durante un arco di tempo stabilito. Poi scompaiono.

Ioli apre gli occhi giusto in tempo per vedermi balzare dentro il suo armadio e gettare al suolo i suoi completi Armani.

“Ma che cazzo fai?!” grida con la voce ancora impastata dal sonno.

“Cerco i documenti, sono certo di averli visti comparire proprio adesso” gli rispondo sicuro.

La mia ricerca alla fine risulta vana, nel mentre Ioli si è nuovamente addormentato, voltato sul lato destro come un bambino.

Decido di scusarmi, se c’è una cosa che non sopporto, è di essere svegliato da rumori improvvisi o da persone sgradevoli.

Mi piazzo acanto a mio padre e dopo alcune spinte, e diversi adorabili fischi nelle orecchie, riesco a fare in modo che apra gli occhi.

“Volevo semplicemente chiederti scusa per averti svegliato poco fa, e per aver inavvertitamente messo a soqquadro il tuo armadio”

Ioli mi fissa alcuni secondi prima di manifestare, attraverso un borbottio simile a quello di un vecchi peschereccio, dei giudizi poco equi e amabili nei confronti di Bianca.

Turbato da queste becere esplosioni di rabbia mal indirizzata, rifletto sul da farsi, poi estraggo silenziosamente il legno appuntito. Ioli ha già ripreso sonno, russa beatamente e nulla sembra turbarlo. Mettere in dubbio la natura del proprio padre non è bello, ma Paolo è stato chiaro, a volte è difficile riconoscere i demoni, e un marito che parla così della propria compagna ha tutte le possibilità di esserlo.

Pungo mio padre sulla guancia, non troppo forte da perforare da parte a parte la carne, ma sufficiente per lacerargli la pelle.

Si sveglia gridando, si guarda intorno spaesato, incapace di realizzare cosa gli sia successo. Mi fissa con gli occhi sbarrati, la mia presenza, e il fatto che io stia ancora brandendo un oggetto appuntito, non lo aiutano a tranquillizzarsi. Si porta una mano sul viso, le dita si sporcano di sangue.

“È sangue” gli dico “per fortuna non è sabbia, non sei un demone, puoi tornare a dormire tranquillo”.

Balbetta alcune frasi senza senso mentre continua a pulirsi la ferita.

Decido di andarmene, offeso dal fatto che non mi abbia nemmeno ringraziato, in fin dei conti gli ho appena rivelato qualcosa di positivo; purtroppo l’ingratitudine di certe persone non ha pari.

Nel tragitto tra la camera da letto e la cucina prendo la seconda decisione importante: non mi sembra corretto che mio padre, per offendere me, pronunci certe frasi su Bianca, dovrà pagarla.

Mi reco da mia madre e le riferisco, tralasciando l’episodio del test per demoni, quanto accaduto; con occhi quasi lucidi le dico che mi sembra un’offesa imperdonabile, per lei come persona, ma soprattutto per lei come simbolo di tutte le donne del mondo.

Mi spingo a dire che lasciarsi offendere in questo modo dal proprio compagno, altro non è che l’inizio di una rovinosa caduta per lo spirito e la serenità di coppia.

Appena vedo che Bianca si toglie il grembiule, decido che è arrivato il momento di andarmene. Le pungo il sedere con il bacchetto, non cade sabbia…bene. Lei sembra non farci caso, ha la mente altrove.

Chiudo la porta nel momento preciso in cui mia madre comincia a tirare su le tapparelle della camera di Ioli gridando “e così secondo te io sarei una puttana”.

Torno a casa e mangio rapidamente una mozzarella di bufala, solo in un secondo momento valuto che forse avrei fatto bene a lavarmi le mani prima.

Mi addormento davanti alla tv, apro gli occhi verso le 15.30, il momento migliore per cominciare la mia caccia.

Armato di bacchetto, inforco la mia fida Graziella e sfreccio come un fulmine per le vie del centro. Mi sembra di essere uno di quegli antichi cavalieri dei tornei medioevali, con la piccola differenza che loro cavalcavano splendidi purosangue e combattevano con lunghe lance.

La gavetta la fanno tutti, rifletto, avranno cominciato con Graziella e paletto di legno pure loro.

Animato da splendidi propositi, parcheggio la bici e do inizio alla caccia.

Le prime due ore le passo scrutando con attenzione i volti delle persone, in attesa anche di un solo cenno di trasformazione. Un viso che diviene cavallo, una tonalità di pelle verde rospo, una dentatura improvvisamente simile a quella di un coccodrillo. Niente di tutto questo accade, sono circondato da decine di persone, e nessuna di queste sembra essere un demone.

C’è chi parla, chi ride, chi mangia un gelato. Genitori sorridenti portano a spasso piccole pesti, fidanzati innamorati camminano per mano e dichiarano al mondo la loro passeggera felicità.

Per prevenire l’ovvio calo di entusiasmo, decido quindi di passare alle maniere drastiche, e mi dedico a pungere le braccia e i sederi di chi mi capita a tiro.

Ricevo offese, sguardi terrorizzati, un tentativo di pestaggio che evito per pura fortuna; non incontro demoni, qui sembrano tutti santi, peggio che vivere in Vaticano, rifletto.

Le ore passano e con esse va scemando la mia voglia di salvare il mondo; verso le 19 decido di fare l’ultimo tentativo e, forte del mio abbigliamento non troppo distante dalla decenza, mi reco nella piazza dove si svolge il rito dell’aperitivo.

Centinaia di ragazzi, giovani e meno giovani, si radunano durante i week end e passano ore bevendo in compagnia. Chi organizza la serata, chi approfitta di quei minuti per salutare gli amici prima di buttassi nuovamente sui libri.

La piazza è una gigantesca passerella dove ragazzi e ragazze sfilano, giudicano e si lasciano giudicare in base al proprio look, carisma e abilità sociali.

Ammetto che mai fino ad oggi mi ero spinto tanto addentro a questo mondo, non conosco il 99% di queste persone, e l’1% che sa chi sono, finge di non vedermi.

Ordino uno spritz e rimango in silenzio ad osservare le dinamiche di gruppo: tendenzialmente mi pare di capire che gli alfa stanno con le alfa, chi non appartiene a tale gruppo privilegiato si accontenta di circondarsi di amici dello stesso sesso.

Prima deduzione: se sei figo, hai anche il coraggio di parlare con le donne, se sei brutto, rimani in cerchio con i tuoi amici a raccontarti le stesse storie di sempre.

Le donne alfa sono o forse meglio dire, sembrano, tutte bellissime. Il trucco e i vestiti sono fatti apposta per catturare l’attenzione degli uomini presenti. Racconti quasi bisbigliati sottolineati da risate a crepapelle sono la normalità. Se non parlano con un maschio alfa, le donne alfa rimangono in piccoli gruppetti il cui unico scopo sembra essere quello di osservare gli altri e bisbigliarne apprezzamenti o drastiche stroncature.

Anche se non riuscirò a scovare dei demoni questa sera, rifletto, almeno posso dire di essere sopravvissuto ad una serata di aperitivo.

Finisco il mio cocktail e quando torno al banco per riporre il bicchiere individuo nuovamente la Donna Poncho.

Non saprei dire cosa mi colpisca, di certo dall’ultima volta che la ho vista mi è capitato in diverse occasioni di pensare a lei. C’era qualcosa di strano nel suo modo di fare, o probabilmente era una semplice sensazione, fatto sta che senza pensarci un secondo, la vado a conoscere.

“Tu per me sei la Donna Poncho”.

L’apertura è di quelle memorabili, la ragazza distoglie per un momento gli occhi dal suo iPhone e mi guarda con sospetto.

“Prego?”

“Non devi domandarmelo” rispondo, “ritengo che la preghiera sia una cosa molto intima, ciascuno sceglie i modi e i tempi in cui ricercare un contatto con colui che ritiene essere il creatore. Io ad esempio credo in Sgudibla, il tuo Dio potrebbe essere il Signor Dio o il Signor Allah, a me questo non importa molto, tanto sono consapevole di avere ragione e quando riuscirò ad organizzare un esercito di mercenari, darò il via ad una nuova ondata di crociate contro voi miscredenti e vi sterminerò. Fino ad allora, prega pure chi vuoi e quando vuoi”.

Fisso impassibile la ragazza che non mi dà l’impressione di aver capito molto.

“Ci conosciamo scusa?” dice lei.

“Ti ho vista lunedì scorso, uscivo dallo studio del dottor Fabiani, eri al telefono, indossavi questo stesso poncho, ti ho riconosciuta per questo”.

Probabilmente tocco un tasto delicato perché la vedo arrossire di colpo: “Guarda deve essere proprio un caso perché sarà la terza volta in vita mia che indosso questo poncho, che tra parentesi è di Valentino e mi è costato un patrimonio”.

“Comprato usato quindi”.

“No..come usato, nuovissimo. Ma ti pare, io che compro qualcosa di usato, ma sei fuori? Che schifo!”

“Tu hai detto che è di un tal Valentino, per questo immagino sia usato. Almeno una volta dico, lo avrà usato questo poncho il tuo amico Valentino, tecnicamente quindi è usato”.

“Ma no che hai capito, Valentino lo stilista! Il poncho è di Valentino lo stilista, lo ho comprato nuovo…ma senti scusa, tu chi sei?”

La spiegazione della Donna Poncho non è stata sufficientemente esaustiva, il dilemma nuovo/usato rimane, ma decido di sorvolare per il quieto vivere.

Allungo una mano verso di lei, “Mi chiamo S…”

“Scusa, scusa un secondo solo” mi dice mentre si porta il telefono all’orecchio.

Comincia a parlottare. “Sono dentro il bar…sì per favore help, e veloce anche, dai ti aspetto..sì già ti ho visto, sbrigati”.

Chiude la telefonata e mi guarda, io sono ancora con la mano a mezz’aria.

“Katy” mi dice stringendomi la mano.

“Molto piacere Katy, io sono S…”

“Puppy tesoro!”

Il grido di Katy è rivolto ad un ragazzo che ha appena messo piede nel locale, immagino si tratti della persona con il quale parlava al telefono. La ragazza gli fa cenno di raggiungerci e quando arriva, lo abbraccia con passione.

Una sorta di cappa di vetro scende sopra i due, io vengo scaraventato con forza al di fuori della loro esistenza.

Katy mi volta parzialmente le spalle, mi ritrovo dietro di lei e fissare Puppy, che non ha avuto nemmeno la cortesia di presentarsi. Ci rimango male, offeso, escluso in malo modo senza un motivo apparente.

Estraggo il paletto ma nel momento in cui mi accingo a verificare la mia intuizione, la ragazza si gira.

“Puppy questo è…Sandro, un tipo che ho conosciuto…dal medico”.

Poi si rivolge a me: “Perché non mi vieni a trovare questa sera? Io lavoro al Blue. Baci baci”. Si volta e si allontana.

Rimango come uno scemo, in silenzio, nel bel mezzo di un bar.

I due escono senza lasciarmi la possibilità di ricordare loro che non mi chiamo Sandro, e che non so assolutamente cosa sia il Blue. Una cosa però non se ne va con loro, e anzi cresce man mano li vedo ridere sguaiatamente e guardare verso di me, ed è la rabbia nei confronti di un altro possibile demone, la Donna Poncho.

Il Blue è un locale, non ci metto molto a scoprirlo. Il bar è tappezzato di volantini che pubblicizzano “Il sabato notte fashion, dove moda, stile e divertimento si incontrano”, non dista nemmeno troppo da casa mia, vedrò di farmi trovare pronto.

Alle 23 sono in fila fuori dal locale, le porte sono state aperte da circa 30 minuti ma attualmente passano solo tavoli e ragazze. La selezione all’entrata è ad opera di un ragazzo sui trent’anni, il sole o le lampade, hanno danneggiato più del dovuto la sua pelle, sembra il figlio scemo di Clint Eastwood.

Per uno strano effetto visivo ho come l’impressione che tutte le ragazze che stanno saltando la fila siano uguali: le acconciature sono tutte impeccabili, così come i capi che indossano. I tacchi vertiginosi le fanno sembrare amazzoni che al posto dell’arco portano le immancabili Louis Vuitton. Piccole, medie, grandi, vedo LV ovunque, come se ad un supermercato invece di borsette Ipercoop avessero fornito alla clientela femminile sacche da 2000 euro.

Vedo arrivare Katy, passa la fila senza degnare alcuno di un minimo sguardo, si ferma a baciare platealmente il piccolo Clint che ora scopro chiamarsi Pippo.

Guarda verso noi comuni mortali, incrocia il mio sguardo ma finge di non avermi visto.

Passa almeno un’altra ora prima che io riesca ad arrivare davanti a Pippo, nella tasca della giacca stringo il mio paletto di legno, mi fa sentire tranquillo sapere di averlo al mio lato.

Molte persone se ne sono già andate, quasi esclusivamente ragazzi, stanchi di aspettare, ma soprattutto di sentirsi dire che il locale è completo, salvo poi vedere gruppi di alfa arrivare e passare.

Rimango in silenzio, non spingo, non impreco, alla fine entro. Se avessi avuto qualche dubbio sul perché chiamare un locale Blue, i primi 10 secondi all’interno sono sufficienti a chiarirmi le idee, sembra di stare nella casa dei Puffi.

Azzurro, blue e bluette ovunque, dalla console alle camicie indossate dai camerieri. Faccio un rapido giro del locale, giusto per poter raccontare un giorno di esserci stato. All’interno ci saranno al massimo 500 persone, in gran parte uomini.

La pista è piena, un vocalist alquanto fastidioso ha appena finito di salutare il “tavolo Franco, Roberto, Ruby e Puppy“.

Ci siamo, penso, se c’è lui, ci sarà anche lei. Mi avvicino al tavolo Puppy, è popolato da un folto numero di ragazzi che hanno esultato come pazzi udendo il loro nome al microfono, contenti loro. Vedo Puppy, lui non vede me.

Con mio sommo dispiacere mi accorgo che Katy non è con loro.

“Apri lo shampoo Puppy, apri lo shampoo”

Le grida del vocalist non le capisco, vale davvero la pena dire ad una persona per microfono che ha bisogno di lavarsi i capelli?

Alla fine riesco a vedere Katy. E’ al tavolo con un gruppo di ragazzi che avranno al massimo trent’anni. Sta bevendo da un flute e sembra ballare svogliatamente.

A turno i ragazzi le si avvicinano, lei scherza e parla con tutti ma poi torna a chiudersi in se stessa. La vedo perdere l’equilibrio per un attimo e cadere seduta sul divanetto. Ride da sola, probabilmente è un po’ brilla.

Abbandona il tavolo e si dirige verso il bagno, decido di affrontarla all’uscita.

Quando esce si avvicina al bar ed ordina qualcosa, mi metto accanto a lei.

“Ciao Donna Poncho” dico sorridendo.

Per un attimo sembra non riconoscermi, poi appoggia la mano sulla mia spalla e scoppia a ridere: “Sandro giusto? Alla fine sei venuto, bravo”.

E’ evidentemente ubriaca.

“Ti ho vista poco fa al tavolo con i tuoi amici, puoi rimanere a parlare o vai da loro?” domando.

Mi guarda perplessa. “Amici? Ma no, sono un tavolo che viene sempre qui il sabato, sono andata a fare immagine”.

Il mio sguardo smarrito la convince a proseguire.

“Io ci lavoro qui, faccio immagine. Mi pagano 150 euro per andare ai tavoli e parlare con gli sfigati”.

“Non capisco” le rispondo “come sarebbe che ti pagano per parlare?”

“Ma dove vivi?” ridacchia. “Funziona così: gruppi di amici sfigati prendono un tavolino, uno di loro è quello con il grano. Arrivano in disco, ordinano una bottiglia di qualcosa che costa loro 180 o 200 euro, non so. Lo fanno perché così hanno la scusa per invitare le ragazze. Solo che una come me non potrebbero abbordarla” ride ancora “quindi il boss del locale paga me e altre per andare al tavolo da quelli. Loro si sentono importanti e per impressionarci, comprano ancora da bere. Poi ci chiedono il numero di telefono convinti di averci conquistate, e noi o lo diamo finto, o non rispondiamo mai!”.

“Che razza di sfigati” dice e scoppia a ridere appoggiandosi ancora a me.

Si fa improvvisamente seria e mi fissa. “In teoria non dovrei parlare con te, mi rovini la piazza”.

Rimango in silenzio.

“Cioè, non ti offendere, ma io frequento un certo livello di gente, esco con imprenditori, non con mezze seghe. Se mi vedono con te, magari pensano che abbia bisogno e tirano sul prezzo”, sorride.

Continua a parlare. “Forse non te lo dovrei dire, ma tanto sono ubriaca. Sai con chi ho una storia?”

Si avvicina e mi sussurra nell’orecchio il nome di un noto calciatore.

“Lui è fidanzato, ma dice di essere pazzo di me”.

Mi guarda, sembra che si aspetti una qualche reazione che ovviamente non riceve da me.

“Io gli sfigati qui nemmeno li cago, senza offesa sai, però cerca di capire, nessuno di questi qui si può permettere una come me”.

“In che senso scusa?”

Ride ancora e mi fissa. “Lo hai capito benissimo in che senso dai, vuoi una cosa bella? La paghi. E’ così in tutto”.

Nella mia testa ora si affollano molti pensieri. La razionalità mi dice di credere a quanto lei ha appena confessato, anche se in fondo, c’è una piccola parte di me che spera di non aver capito bene, e di aver frainteso le parole di Katy.

Non sono certo se sia pena o disprezzo quello che provo, di certo mi ha tolto l’energia e il desiderio di continuare la conversazione.

“E dai, non fare quella faccia, non sono l’unica ti assicuro”.

Si avvicina a me, le nostre labbra si sfiorano, odora a prosecco di terza categoria rivenduto al prezzo di uno champagne.

“Ti piaccio vero? Tu li hai i soldi per permetterti una come me? Posso essere davvero brava”.

Per due secondi non dice nulla, sento il suo respiro su di me, poi mi spinge via e ridendo esclama: “no che non ce li hai i soldi, sei uno sfigato e pezzente come quelli!”.

“Katy amore, dove eri finita, ti stavamo aspettando per aprire una bozza di shampoo”.

Uno dei ragazzi del tavolino in cui prima la avevo notato si è avvicinato a noi. Mi guarda in cagnesco e afferra la giovane per il braccio.

Lei mi sorride e senza smettere di fissarmi si muove verso la pista.

Anche se non servirebbe alcuna conferma, mi avvicino rapidamente e colpisco il jeans Cavalli di Katy con il bastoncino.

La sabbia comincia a scendere, vedo una piccola ma continua cascata d’oro formarsi.

La afferro per l’altro braccio e la tiro a me.

Mi fissa spaventata.

“Non andare, non buttarti via”, è l’unica cosa che riesco a dirle.

Dopo il primo secondo di smarrimento lo sguardo di Katy si fa duro: “Ma chi credi di essere tu per dirmi cosa è giusto e cosa è sbagliato? Io sono bella, giovane e faccio il cazzo che voglio, ok? Scopo con chi mi pare e quando mi pare, e se ho voglia di una nuova Louis Vuitton me la compro domani, perché prendo più io in 1 ora che un pezzente come te in un mese. E adesso, paladino e salvatore delle giovani anime, allontanati da me, non farti più vedere. Se devi salvare qualcuno, guardati intorno..ce ne sono di anime in pericolo, più di quante tu possa immaginare.

Torna saltellando verso il tavolino, le porgono un bicchiere di shampoo, spero non sia tossico.

Fermo in mezzo alla discoteca mi guardo intorno…e mi accorgo per la prima volta di essere circondato da molte, troppe Donne Poncho.